La storia della chiesa

Ignazio d'Antiochia

I padri apostolici

I cristiani vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita.

Lettera a Diogneto, V


Quando parliamo dei padri apostolici, ci riferiamo agli scrittori che rappresentano la generazione di cristiani che sopravvisse alla morte degli apostoli di Gesù dalla fine del I secolo alla metà del II. Ricordiamo Clemente e la sua lettera alla chiesa di Corinto, Ignazio d'Antiochia (e le sue lettere alle chiese di Efeso, Roma, Smirne, ecc.), Policarpo e le sue due lettere alla chiesa di Filippi, la Didaché, testo anonimo sull’ordinamento ecclesiastico, e la Lettera a Diogneto, un altro testo anonimo scritto a un pagano chiamato Diogneto per difendere la fede e la pratica delle comunità cristiane.

Molti di questi padri avevano conosciuto personalmente gli apostoli e, dopo la morte di quest'ultimi, si impegnarono a conservare i loro insegnamenti autorevoli, a incoraggiare le varie chiese fondate durante le loro vite, e a portare avanti la loro missione di diffondere la fede cristiana nel mondo greco-romano. I loro scritti non trasmisero sistemi dottrinali elaborati, ma affrontarono le sfide e le circostanze particolari che le chiese apostoliche dovettero vivere dopo la perdita dei loro fondatori.

Tra i diversi argomenti discussi, i padri apostolici evidenziarono la vocazione cristiana di vivere una vita santa e disciplinata in mezzo al mondo pagano, la necessità di rimanere fedeli a Cristo, nonostante la persecuzione e il martirio, e l’autorità magistrale delle Sacre Scritture (l’Antico Testamento e le testimonianze apostoliche che sarebbero diventate il Nuovo Testamento) in contrasto con i loro propri scritti ministeriali. Quest’ultimo è di vitale importanza, perché mette in risalto la loro consapevolezza di non proferire parole ispirate da Dio (2 Timoteo 3:16) ma di tramandare solo “la fede che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre” (Giuda 3).

Benché sia possibile rilevare alcune incoerenze teologici nei loro scritti, è bene ricordare che le precisazioni dottrinali dei III, IV, e V secoli dovevano ancora avvenire. Dobbiamo quindi ringraziare i padri del II secolo per aver forgiato il primo anello nella catena storica che ci lega alla chiesa apostolica del I.

Policarpo di Smirne

I Martiri

Quando [Policarpo] fu portato dinanzi al palco del proconsole, coraggiosamente confessò il Signore, disprezzando le minacce del giudice. Il proconsole cercò in tutti i modi di farlo apostatare dicendogli di avere pietà della sua età avanzata, già che sembrava non far caso ai tormenti. “La tua vecchiaia ha da soffrire”, gli diceva, “quello che ai giovani spaventa...Giura anche per la fortuna di Cesare e rinnega Cristo”. “Ottantasei anni”, disse Policarpo, “che lo servo e mai mi ha fatto male, al contrario, mi ha colmato di beni. Come posso odiare Colui che ho sempre servito, il mio Maestro, il mio Salvatore, da chi spero la mia felicità, Colui che punisce i malvagi ed è il vendicatore dei giusti?”

Il Martirio di San Policarpo
155 d.C.


I primi due secoli dopo l’epoca apostolica furono tempi difficili per i cristiani a causa delle terribili persecuzioni che essi subirono per la loro fede. La tradizione ricorda due persone in particolare, Policarpo di Smirne e Perpetua di Cartagine, che illustrano egregiamente il periodo di grande sacrificio che i primi cristiani dovettero attraversare.

Policarpo fu discepolo dell’apostolo Giovanni e poi vescovo della chiesa di Smirne. Servì il Signore fedelmente per tutta la sua vita, prendendosi cura della chiesa e opponendosi a insegnamenti contrari alla sana dottrina. Fu arrestato all’età di 86 anni e, implorato dal proconsole di rinnegare Cristo, professò con franchezza la sua risoluta fedeltà al suo Signore e Salvatore. Per questo motivo, il 23 febbraio 155 Policarpo fu portato nello stadio di Smirne per essere bruciato al rogo. Le fiamme miracolosamente non lo uccisero, fu un colpo di pugnale a mettere fine alla sua vita.

Quasi cinquant’anni dopo, l’imperatore Settimio Severo emanò un decreto proibendo a tutti i cittadini dell’impero di diventare cristiani. Ciononostante, Perpetua, una giovane madre di Cartagine, professò apertamente la sua fede in Cristo e cominciò a prepararsi al battesimo. Di conseguenza, fu arrestata e, una volta battezzata, fu incarcerata in attesa di processo. Benché il padre di Perpetua la scongiurasse ardentemente di abbandonare la sua confessione per potersi salvare la vita e tornare dal suo piccolo bambino, lei resistette fermamente. Così il 7 marzo 203, Perpetua fu condannata a morte, sbranata da animali selvaggi durante uno spettacolo per celebrare il compleanno del figlio dell’imperatore.

Policarpo e Perpetua non furono i soli a subire il martirio. Essi personificano gli innumerevoli cristiani di tutti i tempi che “hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte” (Apocalisse 12:11). Essi ci ricordano anche che ogni cristiano, che sia ucciso per Cristo o no, è chiamato a essere un martirio, cioè testimone, così come afferma l’apostolo Paolo: “Non faccio nessun conto della mia vita, come se mi fosse preziosa, pur di condurre a termine la mia corsa e il servizio affidatomi dal Signore Gesù, cioè di testimoniare del vangelo della grazia di Dio” (Atti 20:22).

Giustino Martire

Gli Apologisti

Dalla Legge e dai Profeti noi abbiamo riunito tutte quelle cose che furono dette in vista del Signore nostro Gesù Cristo. (…) Questi è creatore [con il Padre]; colui che plasmò l’uomo; che era tutto in tutte le cose. (…) Questi infatti è colui che in Noè fu nocchiero, che guidò Abramo, che in Isacco fu legato, che in Giacobbe fu esule, che in Giuseppe fu venduto, che in Mosè fu condottiero, che con Giosuè spartì l’eredità, che in David e nei Profeti predisse la sua passione. 

Questi è colui infine che nella Vergine si è incarnato, (…) fu giudicato da Pilato, fu trafitto nella carne dai chiodi, fu appeso al legno, fu sepolto nella terra, risorse dal regno dei morti, apparve agli Apostoli, fu assunto al cielo, siede alla destra del Padre. Questi è il riposo dei trapassati, il ritrovatore degli smarriti, luce di coloro che sono nelle tenebre, redentore degli schiavi, sostegno degli erranti, rifugio degli afflitti, sposo della Chiesa, (…) Dio da Dio, Figlio dal Padre, Gesù Cristo, Re dei secoli. Amen.

Melitone di Sardi
Sulla Fede


Il termine apologista deriva dalla parola greca apologia, che l’apostolo Pietro impiega per incoraggiare i credenti a essere “sempre pronti a rendere conto [apologia] della speranza” (1 Pietro 3:15). Sin da quando Gesù comandò ai suoi discepoli di testimoniare il vangelo “fino alle estremità della terra” (Atti 1:8), i cristiani hanno sempre dovuto prepararsi a seguire l'esortazione di Pietro. Quando i cristiani del II e III secolo si prodigarono nella diffusione della Parola di Dio, furono costretti a difendere la loro fede dagli attacchi, dalle accuse, e dai fraintendimenti che la follia della predicazione di Cristo crocifisso suscitò nel mondo pagano.

Tra tutti coloro che svolsero questo servizio importante, il più noto è senza dubbio Giustino Martire (100 – 165 d.C.) le cui Prima Apologia Seconda Apologia furono destinate a giustificare la dottrina e la pratica cristiane ai pagani, mentre il suo Dialogo con Trifone mise a confronto il giudaismo e il cristianesimo, rivendicando quest’ultimo come il vero adempimento dell'Antico Testamento. Taziano (120 – 180 d.C.), discepolo di Giustino, scrisse un Discorso ai Greci con le stesse intenzioni del suo maestro. Insieme a questi, possiamo anche citare Teofilo d’Antiochia (? – 183-5 d.C.) autore di Ad Autolico, Atenagora (133 – 190 d.C.) che presentò una Supplica per i cristiani rivolta a Marco Aurelio, e Melitone di Sardi (? – 180 d.C.) che dimostrò come tutte le Scritture, da Mosè ai profeti, riguardano la persona e l’opera di Cristo (Luca 24:27).

Nel difendere la fede cristiana esiste sempre la tentazione di compromettere l'integrità del vangelo per renderlo più comprensibile o accettabile al mondo circostante. Benché i primi apologisti forse non ci resistessero perfettamente (un fatto suggerito dalla presenza di alcune intrusioni della filosofia pagana nelle loro opere), essi restano comunque per noi un modello esemplare di come “esortare secondo la sana dottrina e di convincere quelli che contraddicono” (Tito 1:9).

Atanasio d'Alessandria

Gli Eretici

Vi esorto, dunque, a fare da esempio ai fratelli sparsi nel mondo, tenendo sempre in mano la confessione [dei nostri padri] e difendendola con grande zelo e fiducia nel Signore. Fategli capire che una lotta ci sta davanti per conservare la verità contro l’eresia. (...) Anche noi, dunque, visto che questa lotta è per il nostro tutto, e che la scelta ci sta davanti, o di negare o di conservare la fede, impegniamoci con ogni premura a salvaguardare ciò che abbiamo ricevuto.

Atanasio di Alessandria
Epistola ai Vescovi d’Egitto, 21


Dopo la morte degli apostoli, la chiesa dovette affrontare non solo attacchi esterni, ma anche pericoli interni: nella forma di eresie, ad esempio, insegnamenti contrari alla testimonianza apostolica. Già nel I secolo, gli apostoli stessi avevano combattuto le eresie e avevano avvertito le chiese da loro fondate di perseverare sempre nella sana dottrina. Per esempio, l’apostolo Paolo scrisse alle chiese della Galazia: “Mi meraviglio che così presto voi passiate da colui che vi ha chiamati mediante la grazia a un altro vangelo; ché poi non c’è un altro vangelo, però ci sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Ma anche se noi o un angelo dal cielo annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema” (Galati 1:6-8).

Qualche anno dopo, Paolo rimproverò la chiesa di Corinto dicendo: “Come mai alcuni tra voi dicono che non c’è risurrezione dei morti? (...) Se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede” (1 Corinzi 15:12-14).

Bisogna precisare che non tutte le idee incoerenti con le Scritture sono eretiche. Ci sono tanti argomenti secondari che possono causare disaccordo tra i credenti, e per questo servono la pazienza e l’amore (Romani 14). L’eresia è piuttosto un insegnamento che contraddice i fondamenti del vangelo e rende vana la fede. Citiamo, per esempio, il docetismo nega la piena umanità di Cristo, sostenendo invece che il Figlio di Dio fosse solo apparso come un uomo. D’altro canto, l’ebionistismo negava la piena divinità di Cristo, ritenendo che Gesù fosse stato un uomo come tutti e solo scelto per agire nel nome di Dio. Come la chiesa primitiva capì, entrambi questi insegnamenti sovvertono il vangelo.

Come disse Atanasio di Alessandria, la lotta per conservare rettamente il vangelo è la lotta “per il nostro tutto”! La responsabilità della chiesa di comprendere profondamente e combattere ardentemente per la verità del vangelo non è facoltativa né riservata solo ai teologi professionali. Come Paolo si rivolgeva a tutta la chiesa, così il compito di salvaguardare la sana dottrina spetta a ogni singolo credente.

Mentre le eresie dei primi secoli costituivano — e costituiscono tuttora! — una grande minaccia alla chiesa, esse, nella provvidenza di Dio, ebbero un lato positivo. Come scopriremo nelle prossime letture, le eresie costrinsero i cristiani dei primi secoli a definire e approfondire, in termini chiari e precisi, la loro fede, producendo opere teologiche di cui noi ancora oggi possiamo beneficiare.

Ireneo di Lione

Ireneo di Lione

La Chiesa, sparsa in tutto il mondo, (…) ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede nell’unico Dio, Padre onnipotente, che fece il cielo la terra e il mare e tutto ciò che in essi è contenuto. La Chiesa accolse la fede nell’unico Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza. Credette nello Spirito Santo che per mezzo dei profeti manifestò il disegno divino di salvezza. (...) Avendo ricevuto, come dissi, tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura (…) benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all’unisono, come possedesse un’unica bocca.

Ireneo di Lione
Contro le Eresie, 1.10.1-3


Ireneo di Lione (130-202 d.C.) fu uno degli esponenti più importanti della fede cristiana ortodossa contro il pericolo dell’eresia. Nato a Smirne, Ireneo fu discepolo di Policarpo che, a sua volta, era stato discepolo dell’apostolo Giovanni. Nel 177-178 d.C., Ireneo, dopo il martirio del vescovo di Lione, ne fu il successore. Si impegnò nell’evangelizzazione della Gallia. Parte di questa missione fu l’opposizione ai falsi insegnamenti che corrompevano il vangelo. Scrisse la sua opera, Contro le Eresie, per contrastare lo gnosticismo, un'aberrazione filosofica che, pur reputandosi cristiana, si distingueva per la sua visione dualistica (l’idea che il mondo materiale è intrinsecamente malvagio e solo lo spirito è puro), le sue nozioni speculative sull'esistenza di vari esseri divini che fungevano da mediatori tra la deità suprema e il mondo e la sua concezione di salvezza come gnosi, cioè l’apprendimento di una sapienza spirituale nascosta alla maggior parte dell’umanità.

Nel rifiutare gli gnostici, Ireneo dimostrò l’incoerenza delle loro dottrine, facendo appello alla regola fidei, ovvero il riassunto della fede cristiana cattolica e apostolica. La regola serviva da metro fidato che permise a Ireneo di valutare la correttezza o meno di varie interpretazioni delle Scritture e di fornirne l’esposizione retta. Tanti secoli dopo, possiamo ancora imparare molto dai suoi approfondimenti biblici. Ne elenchiamo tre:

1) Contro lo gnosticismo. Dio non si serve di mediatori per compiere tutte le sue opere di creazione, rivelazione e redenzione, ma le fece con le sue proprie “mani”, ossia la sua Parola (suo Figlio) e il suo Spirito.

2) Ancora contro lo gnosticismo. la conoscenza di Dio non è un mistero comprensibile solo a pochi, piuttosto è pienamente rivelata a tutti in Gesù Cristo.

3) Infine, Cristo, quale l’ultimo Adamo (Romani 5:12-21), ci riconciliò con Dio attraverso tutto il corso della sua vita, dalla nascita all’ascensione, ricapitolando in sé stesso la vita e la storia dell’umanità. In altre parole, Gesù si sostituì al nostro posto e nella nostra carne per offrire al Padre l’ubbidienza di cui eravamo incapaci e subire la morte cui eravamo condannati. Come esclamò l’apostolo Pietro, “Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurvi a Dio” (1 Pietro 3:18). Amen!

Tertulliano di Cartagine

Tertulliano di Cartagine

Quando l’apostolo ci vorrebbe trattenere, nomina esplicitamente la filosofia come ciò da cui dobbiamo guardarci... Infatti, che ha a che fare Atene con Gerusalemme? (...) Noi non vogliamo nessuna discussione curiosa dopo aver conosciuto Cristo Gesù, nessuna ricerca dopo aver goduto del vangelo! Avendo la nostra fede, non ne desideriamo nessun’altra.

Tertulliano
De praescriptione haereticorum, VII


Tertulliano, nato a Cartagine intorno al 155 d.C., è conosciuto come il fondatore della teologia occidentale e il padre del cristianesimo latino. Essendo cresciuto in una famiglia pagana, passò una giovinezza dissoluta ma poi, probabilmente a causa della testimonianza dei martiri, si convertì alla fede cristiana. “Il sangue dei martiri è il seme della chiesa”, disse, ispirato dalla sua esperienza di vita. Tertulliano è ricordato, tra l’altro, per il suo contributo allo sviluppo della teologia della Trinità (fu infatti il primo a usare il termine trinitas), per le sue apologie a favore dei cristiani perseguitati, e, come Ireneo, per le sue difese dei punti cardinali della fede apostolica, la regola fidei, contro varie eresie.

Confutò, insieme a Ippolito di Roma (170-235 d.C.), il monarchianismo modalista (chiamato anche modalismo, sabellianismo, o patripassianismo), l’eresia che si imputava sull’unicità di Dio a tal punto da supporre che le tre Persone della Trinità (Padre, Figlio, e Spirito) fossero solo tre modi diversi in cui un’unica divinità si manifestò, come un solo attore che si mette tre maschere distinte in diversi momenti dello spettacolo. Tertulliano si oppose anche al marcionismo, eresia promulgata da Marcione di Sinope che cercò di cancellare ogni traccia dell’Antico Testamento dalla fede cristiana, perché riteneva incompatibili il Dio rivelato a Israele e il Dio rivelato in Cristo.

Tertulliano discernette il problema fondamentale in tutte le eresie: furono frutto del tentativo di conoscere Dio con l’aiuto delle filosofie umane anziché conoscerlo esclusivamente secondo le Scritture che testimoniano Gesù Cristo “nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Colossesi 3:3).

Tuttavia, Tertulliano propagò alcune nozioni errate. Pur affermando la Trinità, insegnò che il Figlio e lo Spirito sono subordinati al Padre anziché pienamente uguali a Lui. La sua predilezione per la giurisprudenza lo portò a concepire l’opera salvifica di Cristo in termini meramente forensi, per cui introdusse nella teologia latina il concetto del valore meritevole delle opere umane. In più, trattò la regola fidei come se costituisse in sé la verità cristiana (un’idea che sarebbe sfociata nell’autoreferenzialità del magistero romano). Infine, Tertulliano si distaccò tragicamente dalla chiesa e si unì ai montanisti, una setta il cui fondatore, Montano, si reputava portavoce dello Spirito Santo e di nuove rivelazioni.

Ciononostante, l’esempio di Tertulliano sottolinea la vitale importanza dell’esortazione dell’apostolo Paolo in Colossesi 2:8-10a: “Guardate che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vani raggiri secondo la tradizione degli uomini e gli elementi del mondo e non secondo Cristo; perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità; e voi avete tutto pienamente in lui.”

Origene di Alessandria

Origene d'Alessandria

Gli stoici infatti sostengono che quando il più forte degli elementi preverrà, tutte le cose si muteranno in fuoco. Ma la nostra fede è che la Parola preverrà su tutto il creato razionale. (…) Perché, pur essendoci malattie e ferite del corpo che nessuna capacità medica può guarire, noi sosteniamo che nella mente non esiste nessun male troppo forte da non poter essere vinto dalla Suprema Parola e Dio. Poiché più forte di tutti i mali nell’anima è la Parola.

Origene di Alessandria
Contra Celsum, 8.72


Una delle figure più controverse nella storia della chiesa fu Origene di Alessandria (185-254 d.C. circa), soprannominato Adamanzio, cioè “l’uomo di acciaio”, a causa delle sue severe pratiche ascetiche. Dopo il martirio di suo padre nel 202, il giovane Origene, il più grande di sette figli, si assunse la responsabilità di mantenere la sua famiglia. Particolarmente dotato di grandi capacità intellettuali, Origene si associò alla famosa scuola teologica di Alessandria, dove esercitò un’enorme influenza che avrebbe segnato il pensiero cristiano anche tanti secoli dopo.

A causa di alcune divergenze con il vescovo Demetrio, Origene fu espulso da Alessandria (232 d.C.) e si trasferì a Cesarea marittima, in Israele, dove fondò una nuova scuola teologica e continuò il suo lavoro per tanti anni. Nonostante la sua età sempre più avanzata, Origene non frenò la sua prolifica produzione letteraria. Anche quando fu imprigionato e torturato durante la persecuzione di Decio, non abiurò la sua fede e proseguì il suo lavoro teologico. Morì poco dopo, soccombendo presumibilmente alle ferite subite durante la sua incarcerazione.

Grazie al suo genio, Origene svettava sui suoi contemporanei, dimostrandosi esperto in filosofia, teologia, filologia, apologetica, ed esegesi biblica. Tra le migliaia dei suoi scritti — per non parlare delle sue orazioni e prediche — Origene sviluppò le discipline della teologia sistematica (De principiis) e del commentario biblico. Problematiche, però, furono le sue prospettive su un gran numero di luoghi dottrinali e filosofici. Amalgamò l’insegnamento scritturale al pensiero platonico e avanzò concetti come la preesistenza delle anime, l’universale salvezza finale, e l’eterna subordinazione del Figlio di Dio al Padre. Quest’ultimo avrebbe condotto a gravi eresie come l’arianesimo che negava la piena divinità di Cristo. In più, la sua esegesi allegorica delle Scritture aprì le porte ad ogni sorta di interpretazione speculativa e fantasiosa.

Malgrado questi errori, non possiamo non ammirare lo zelo inestinguibile con cui Origene cercò, per tutta la sua vita, di approfondire e disseminare la Parola di Dio. Possiamo imparare molto dal suo impegno infaticabile, persino durante periodi di dura afflizione e persecuzione, di testimoniare e difendere la fede cristiana in un mondo nemico e ostile al vangelo. L’esempio di Origene ci richiama all’esortazione dell’apostolo Paolo a Timoteo: “predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza, (…) sii vigilante in ogni cosa, sopporta le sofferenze, svolgi il compito di evangelista, adempi fedelmente il tuo ministero” (2 Timoteo 4:2, 5).

Eusebio di Cesarea

Il secolo decisivo

Quando io, Costantino Augusto, e io, Licinio Augusto, ci incontrammo felicemente a Milano, affrontammo insieme tutte le questioni riguardanti il bene pubblico e la sicurezza pubblica. Tra i provvedimenti che ci sembravano di maggior giovamento alla popolazione e che fossero da disporre per primi, decidemmo di regolare tutto ciò che concerne la riverenza e la venerazione della divinità, con lo scopo di concedere, tanto ai cristiani quanto a tutti, la libertà di seguire la religione da ciascuno preferita.

Eusebio di Cesarea
“L’editto di Milano”
Storia Ecclesiastica, 10.5.4


Il IV secolo d.C. fu decisivo per la storia della chiesa, poiché le vicende in esso avvenute continuano a influire sul cristianesimo odierno. Il IV secolo iniziò con la più terribile persecuzione dei cristiani, decretata dall’imperatore Diocleziano. Mentre i cristiani avevano già subito varie tribolazioni nei secoli precedenti, la persecuzione dioclezianea raggiunse il massimo di portata e d’intensità. Fedele al tradizionale culto romano, cercò di annichilire la fede cristiana, revocando i diritti dei cristiani e obbligandoli a giurare fedeltà agli dèi pagani. Nonostante feroci tentativi, l’imperatore non riuscì a fermare la propagazione della parola di Dio che, come in Atti 12:24, “progrediva e si diffondeva sempre di più”.

La persecuzione si attenuò dopo l’abdicazione di Diocleziano, ma fu l’editto di Milano, emanato nel 313 dagli imperatori Costantino e Licinio, che concesse ai cristiani la libertà religiosa. Com’è ben saputo, Costantino si sarebbe convertito alla fede cristiana dopo la famosa battaglia di Ponte Milvio e, in seguito, svolse il ruolo principale nell’instaurazione e l’organizzazione del cristianesimo al livello imperiale. L’ascesa al potere di Costantino (consolidata dopo la sconfitta dei suoi rivali) recò tanti benefici ai cristiani che non vissero più sotto la minaccia della persecuzione e del martirio.

D’altro canto, però, l’assenza della persecuzione risultò dannosa in quanto divenne possibile reputarsi cristiani senza rinunciare a sé stessi e prendere la croce per seguire Gesù (Marco 8:34). In più, il regno di Costantino confuse il potere dello stato con il mandato della chiesa, gettando così le fondamenta sulle quali si sarebbero basate le pretese imperiali e autoritarie del papato romano.

Questa convergenza di chiesa e stato avrebbe anche complicato la tremenda lotta per la fede cristiana contro un pericolo più distruttivo della persecuzione: l’eresia. Mentre nel IV secolo si assistette ad alcuni degli assalti più devastanti contro il vangelo di Cristo, germogliarono anche alcuni degli approfondimenti dottrinali più importanti, sviluppati per salvaguardare la fede evangelica. Infatti, sono i protagonisti di questo periodo a cui dobbiamo una gran parte della grammatica teologica e delle formulazioni dogmatiche che governano le nostre concezioni dell’essere trinitario di Dio e della persona e l’opera di Gesù Cristo. È proprio vero, come affermò l’apostolo Paolo, che “tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio” (Romani 8:28).

Alessandro d'Alessandria

Il Concilio di Nicea

Crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti.

tratto dal
Credo di Nicea


Tenutosi nel 325 d.C., il concilio di Nicea fu il primo a essere riconosciuto ecumenico, cioè valido per tutti i cristiani. Seguendo il precedente stabilito in Atti 15, il concilio di Nicea fu convocato soprattutto per affrontare il problema instillato da Ario, un sacerdote di Alessandria. In sostanza, Ario insegnò che il Figlio di Dio non era altro che una creatura, sebbene la prima e più gloriosa di tutte le altre. Ario ritenne il Figlio inferiore al Padre, l’unico vero Dio senza origine.

Ario e i suoi seguaci, gli ariani, arrivarono a questa conclusione perché presupponevano che esistesse un divario invalicabile tra Dio e il cosmo, tanto da proibire qualsiasi contatto diretto. Di conseguenza, il dio ariano rimaneva sempre distaccato dal mondo, inaccessibile e inconoscibile. Peculiarità dell’arianesimo, dunque, era il bisogno di mediatori che fungevano da tramite tra Dio e il creato.

Mentre Atanasio, il vescovo di Alessandria, è ricordato come il campione di Nicea, fu il suo predecessore, Alessandro, che iniziò la lotta per la tutela della fede evangelica. Alessandro, come tutti i trecento diciotto padri niceni che approvarono il Credo di Nicea, si accorse che la piena divinità di Cristo era un insegnamento biblico di vitale importanza e non una questione irrilevante. Il motivo fu questo: solo Dio è capace di salvare il mondo. Dunque, se Cristo non fosse “Dio vero da Dio vero”, tutta la sua opera non avrebbe nessun valore per noi. Siccome, però, anche gli ariani giustificarono la loro eresia riferendosi alle Scritture, i padri niceni furono costretti ad adoperare un termine extra-biblico (homoousion, cioè “della stessa sostanza”) per affermare che il Figlio è uguale al Padre, salvo solo che non è il Padre.

Possiamo ringraziare il concilio di Nicea per aver conservato altre due verità correlate, indispensabili anch’esse al vangelo.

1) Dio non si serve di mediatori perché è lui stesso che in Gesù Cristo discese dal cielo per la nostra salvezza;

2) Il Dio rivelato in Gesù Cristo è identico, senza contraddizione o alterazione, al Dio che esiste da tutta l’eternità in luce inaccessibile. In altre parole, non dobbiamo, né possiamo, cercare Dio se non in Gesù. Ascoltando Gesù, ascoltiamo il Padre. Vedendo Gesù, vediamo il Padre. Conoscendo Gesù, conosciamo il Padre. Come Gesù disse semplicemente ai suoi discepoli: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Giovanni 14:9).

Atanasio d'Alessandria

Atanasio contro mundum

Il Verbo di Dio (...) preso da compassione per il genere umano e la nostra infermità (…) si costruì nella Vergine un tempio, cioè il corpo e, abitando in esso, ne fece un elemento per potersi rendere manifesto. Prese un corpo soggetto, come quello nostro, alla caducità e, nel suo immenso amore, lo offrì al Padre accettando la morte. Così annullò la legge della morte in tutti coloro che sarebbero morti in comunione con lui. Avvenne che la morte, colpendo lui, nel suo sforzo si esaurì completamente, perdendo ogni possibilità di nuocere ad altri. Gli uomini ricaduti nella mortalità furono resi da lui immortali e ricondotti dalla morte alla vita. Infatti, in virtù del corpo che aveva assunto e della risurrezione che aveva conseguito distrusse la morte come fa il fuoco con una fogliolina secca.

Atanasio
L’incarnazione del Verbo, 8


Atanasio di Alessandria (295-373 d.C.) fu indubbiamente uno dei più grandi campioni della fede cristiana. Svolse il suo ministero vescovile mentre, dopo il concilio di Nicea (325 d.C.), infuriava sempre più l’assalto ariano contro la divinità di Gesù Cristo. Nonostante la dichiarazione nicena che Cristo è homoousion, della stessa sostanza, con il Padre, diversi fermenti ariani continuarono a muovere guerra contro la fede ortodossa.

Tanto efficaci furono i loro sforzi che riuscirono, dopo una serie di sinodi, a sostituire al credo niceno un altro che negava la piena uguaglianza di Cristo al Padre. Così avvenne che, nel 360 d.C., un concilio a Costantinopoli emanò, sotto l'autorità dell'imperatore Costanzo II, un decreto che ufficializzò la dottrina ariana per tutta la chiesa, il che spronò Girolamo a scrivere la sua celebre frase: “Il mondo intero gemette quando si accorse con stupore di essere diventato ariano”.

La fede cristiana rischiava di perdersi, se non per la tenacia di un solo uomo: Atanasio. Pur essendo affiancato da altri come Ilario di Poitiers (soprannominato “l’Atanasio dell’Occidente”), Atanasio si trovò in una minuscola minoranza: “Atanasio contra mundum”, si diceva. Affrontò false accuse, complotti, tentativi di assassinio, nonché scomunicazione e cinque esili, battendosi contro poteri sia ecclesiali che imperiali, rischiando la vita per conservare la verità del vangelo e la dottrina secondo la quale il Figlio di Dio, uguale al Padre, s’incarnò per noi e per la nostra salvezza. Atanasio morì prima della vittoria della fede che aveva sostenuto. Rimase fedele fino alla fine, gettando le basi per quella vittoria avvenuta nel 381 a Costantinopoli.

L’esempio di Atanasio ci ispira una domanda: siamo anche noi pronti a testimoniare il vangelo quando per farlo dobbiamo affrontare grandi rischi, sacrifici, e persecuzioni? Siamo disposti a lottare contra mundum per “custodire il buon deposito” della fede che ci è stato affidato (2 Timoteo 1:14)? L’augurio è che tutti noi, alla fine della nostra vita, possiamo affermare ciò che scrisse l’apostolo Paolo alla fine della sua: “Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede” (2 Timoteo 4:7).

Basilio di Cesarea

I padri cappadoci e la dottrina della trinità

Non appena concepisco l’Uno, sono illuminato dallo splendore dei Tre; non appena distinguo i Tre ritorno di nuovo all’Uno. Quando penso a uno dei Tre, penso a lui come a un tutto.

Gregorio Nazianzeno
Orazione 40-41


Basilio di Cesarea (329-379 d.C.), Gregorio di Nissa (335-395 d.C.), e Gregorio Nazianzeno (329-390 d.C.), i padri cappadoci, furono tre teologi provenienti dalla Cappadocia, nell’odierna Turchia, ai cui è dovuta la dottrina ortodossa della Trinità. Contro coloro che negavano la divinità di Cristo e dello Spirito, i cappadoci dovettero ribadire la convinzione nicena che entrambi sono della stessa sostanza del Padre, senza però cadere nell’errore modalista che riduceva il Padre, il Figlio, e lo Spirito a una sola entità, come un attore che si traveste in tre modi diversi. La loro soluzione fu geniale: Dio è tre persone (ipostasi) in una sola essenza (ousia). Non un Dio suddiviso in tre parti, nemmeno tre dèi individuali, ma un solo Dio che esiste in tre persone inconfondibili e indivisibili che a sé stanti sono pienamente Dio.

Questa dottrina suscita indubbiamente qualche perplessità. Se Dio è uno solo, come si può ragionevolmente affermare che esiste in tre persone? I cappadoci trovarono la risposta, meditando profondamente sulle scritture, come le parole di Gesù riportate in Giovanni 14:11: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”. Gesù parla di Dio in termini di relazionalità. Dio è Padre e Figlio. Ma il Padre non può essere tale senza il Figlio, nemmeno il Figlio può essere tale senza il Padre, né per estensione il Padre e il Figlio possono essere tali senza lo Spirito. In altre parole, le relazioni tra le tre persone divine sono costitutive di chi sono. Si riconosce pertanto l’ordine delle tre persone, il Padre genera il Figlio, e dal Padre attraverso il Figlio procede lo Spirito, senza però renderne una inferiore alle altre.

Dall’altro canto, se Dio esiste in tre persone, come si può ragionevolmente affermare che è uno solo? Di nuovo si ricorre a Giovanni 14:11 in cui Gesù parla della coinerenza delle persone divine. Il Padre è nel Figlio e il Figlio è nel Padre, e lo stesso vale anche per lo Spirito. Le tre persone, dunque, sono un solo Dio in quanto ciascuna di loro dimora pienamente nelle altre due, tanto è vero che l’apostolo Paolo poté affermare che “Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo” (2 Corinzi 5:19), anche se solo il Figlio si incarnò e morì sulla croce. Questo è davvero un mistero incomprensibile, ma i padri cappadoci si accorsero quanto è necessaria la precisione teologica “affinché non siamo più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la frode degli uomini (…) ma, seguendo la verità nell’amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo.” (Efesini 4:14-15).

Gregorio Nazianzeno

Apollinare e il Concilio di Constantinopoli I

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza [homoousion] del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.

tratto dal
Credo Niceno-Costantinopolitano
381 d.C.


In seguito alla lotta nel IV secolo contro l’eresia ariana, fu forse inevitabile che la dottrina dell’incarnazione sarebbe diventata il successivo campo di battaglia. Fu uno dei maggiori sostenitori della fede nicena, Apollinare di Laodicea, che enfatizzò la divinità di Cristo a danno della sua umanità. Sostanzialmente, Apollinare non riteneva Cristo pienamente umano in quanto mancante di una mente umana, come se il Figlio di Dio avesse solo “indossato” un fisico per poter interagire con noi al nostro livello.

Contro questa diminuzione dell’umanità di Cristo, il teologo cappadocio Gregorio Nazianzeno (329-390 d.C.) ribatté che un tale Salvatore sarebbe bastato solo se il peccato non avesse toccato altro che il corpo umano. Ma siccome la Bibbia insegna che il peccato ha piuttosto corrotto ogni aspetto del nostro essere umano, il Figlio poteva compierne la redenzione solo nell’assumere la nostra umanità nella sua interezza per poterla ricreare dall’interno. Gregorio sintetizzò questa “teo-logica” così: “Infatti, ciò che non è assunto non è guarito, mentre ciò che è unito a Dio viene salvato” (Lettera 101,32). Quest’affermazione diede espressione concisa alla ragione fondamentale per cui il secondo concilio ecumenico, tenuto a Costantinopoli nel 381 d.C. (anche per contrastare il macedonianismo che negava la divinità dello Spirito Santo), condannò l’apollinarismo come eresia.

Per i padri conciliari, la teologica del termine homoousion, impiegato a Nicea per affermare inequivocabilmente la divinità di Cristo, doveva applicarsi anche all’umanità di Cristo, perché se nell’incarnarsi il Figlio di Dio non avesse assunto interamente la nostra umanità, venendo “in carne simile a carne di peccato” (Romani 8:3), non avrebbe potuto “riconciliarci nel corpo della sua carne” (Colossesi 1:22), diventando “peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2 Corinzi 5:21). Come scrisse l’autore agli Ebrei (2:14a, 17): “Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, egli pure vi ha similmente partecipato. (...) Egli doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa (...) per compiere l'espiazione dei peccati del popolo”.

Giovanni Crisostomo

Giovanni Crisostomo, Girolamo, e il Potere della Parola

Dai mezzi usati da Dio si vede come la stoltezza di Dio sia più saggia della sapienza degli uomini, e come la sua debolezza sia più forte della fortezza umana. In che senso più forte? Nel senso che la croce, nonostante gli uomini, si è affermata su tutto l’universo e ha attirato a sé tutti gli uomini. Molti hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso, ma hanno ottenuto l’effetto contrario. Questo nome rifiorì sempre di più e si sviluppò con progresso crescente.

Giovanni Crisostomo
Omelie sulla prima lettera
ai Corinzi, 4.3.4
pagina 61, 34-36


Nella prefazione all’opera In Chrysostomi (vol.9, col.834-835), il riformatore Giovanni Calvino scrisse: “Benché l’omelia sia qualcosa che consiste in una varietà di elementi, l’interpretazione della Scrittura è comunque la sua priorità. In questo ambito, nessuna persona sensata negherebbe che il nostro Crisostomo primeggia su tutti gli antichi scrittori attualmente conosciuti. (...) Il merito principale del nostro Crisostomo è questo: egli si premurò sempre di non deviare, nemmeno nei minimi dettagli, dal genuino e chiaro significato della Scrittura e di non concedersi alcuna libertà di distorcere il senso semplice delle parole”.

Benché famoso per le sue doti oratorie (il suo soprannome significa appunto “bocca d’oro), Giovanni chiamato “Crisostomo” (349ca-407 d.C.), diacono e sacerdote ad Antiochia e poi arcivescovo di Costantinopoli, si distinse per la sua rigorosa fedeltà nell'esporre le Scritture secondo il senso inteso dai suoi autori. Questo approccio contrastava quello utilizzato da molti dei suoi contemporanei, ossia l’interpretazione allegorica. Crisostomo detestava il metodo allegorico perché sfociava in ogni sorta di interpretazione speculativa e fantasiosa, smussando “la testimonianza di (...) Gesù Cristo e lui crocifisso” che rende impotente la forza umana e “pazza la sapienza del mondo” (1 Corinzi 1:20; 2:1-2). Secondo Crisostomo, la responsabilità dell’interprete è di attenersi strettamente al significato originario dei testi biblici in modo da sentire la voce di Dio senza impedimento.

Insieme a Crisostomo, Girolamo (347-420 d.C.) è anche ricordato per la sua dedizione alla Scrittura. Svolgendo il duplice ruolo di teologo e linguista, si impegnò a tradurre l’intera Bibbia dalle lingue originali (l’ebraico, l’aramaico, e il greco) in latino, la lingua corrente della chiesa occidentale. Il risultato fu la Vulgata, e per finirla Girolamo impiegò circa ventitré anni della sua vita, dovendosi anche trasferire in Israele, dove fondò un monastero, per perfezionare la sua padronanza della lingua ebraica.

È tragico che la traduzione di Girolamo, eseguita per rendere la Bibbia accessibile a tutti i cristiani dell’epoca, divenisse nel medioevo uno strumento per fare il contrario: impedire ai laici di leggere e incontrare personalmente la divina rivelazione attestata nella Scrittura. Ciononostante, la parola di Dio, come affermò Crisostomo, non può essere mai soppressa ma rifiorisce sempre e si sviluppa con progresso crescente. Nel corso della storia, la voce di Dio che parla nella Bibbia si libera da ogni tentativo di domarla o imprigionarla e rivendica la sua unica e assoluta autorità.

Agostino d’Ippona

Agostino d'Ippona e la Preminenza della Grazia

Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode (…) perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te.

Agostino d'Ippona
Confessioni, 1.1.1


Sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza di Agostino d’Ippona (354 d.C. – 430 d.C.), africano di nascita e vescovo d’Ippona alla sua morte, soprattutto per quanto riguarda la storia della chiesa latina, ossia d’Occidente. La sua autorevolezza deriva in parte dalla sua prodigiosa produzione letteraria compresiva di scritti filosofici, apologetici, esegetici, dogmatici, e morali, tra cui De civitate Dei (La città di Dio), De doctrina christiana (La dottrina cristiana), De Trinitate (La Trinità) e Confessiones (Confessioni).

In quest’ultimo, Agostino raccontò la sua testimonianza personale per illustrare l’efficacia della grazia di Dio. Da giovane, Agostino aveva condotto una vita dissoluta, arrendendosi alle passioni della carne. Entrò, però, in un periodo di crisi in cui, nonostante i piaceri che si concedeva, cominciò a cercare il senso della vita, passando dal manicheismo (una religione dualista che considerava il bene e il male come due principi eternamente contrapposti) a varie scuole filosofiche, senza riuscire a trovare riposo per il suo cuore. Dopo un tormentato percorso, Agostino scoprì che poteva trovare quel riposo solo in Colui che l’aveva creato per sé stesso. Pur aiutato da molti (come sua madre, Monica, che aveva pregato assiduamente per lui e Ambrogio, vescovo di Milano, che gli aveva fatto conoscere le Scritture), Agostino si accorse che solo la grazia di Dio l’aveva fatto diventare una nuova creatura in Cristo.

Agostino divenne, dunque, uno dei più grandi campioni della grazia di Dio in due sensi: esemplare del potere della grazia e difensore della dottrina della grazia. Contro l'eretico Pelagio che esaltava l’innata capacità dell’umanità di salvare sé stessi (e poi i semi-pelagiani, sostenitori della teoria secondo la quale la salvezza avviene in modo sinergista, cioè attraverso la cooperazione umana con la grazia), Agostino combatté per conservare la verità che Dio “ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (Tito 3:5). Per confutare Pelagio, Agostino sviluppò le dottrine del peccato originale e della predestinazione incondizionata. La prima sottolineava la totale incapacità dell'essere umano di salvare sé stesso a causa della pervasiva corruzione del peccato che ha sin dal concepimento. La seconda sosteneva che la grazia opera in modo monergista (da una sola parte), che “non dipende né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia” (Romani 9:16).

Nonostante i suoi notevoli contributi, sembra che Agostino non riuscisse a proporre una teologia coerente. Molto influenzato dal neo-platonismo, Agostino rimase parzialmente imprigionato dal pensiero dualista che ridimensionò la grazia in termini sacramentali di una sostanza trasmessa da Dio e infusa nell’anima umana. Di conseguenza, Agostino riaprì le porte allo stesso concetto sinergista a cui si era strenuamente opposto, e preparò il percorso nel quale il cristianesimo latino, e soprattutto il cattolicesimo romano, si incamminò nei secoli successivi.

Cirillo d’Alessandria

Cirillo d'Alessandria, Nestorio, e il Concilio di Efeso

Se il nostro Signore Gesù Cristo è Dio, come può non essere Madre di Dio la Vergine che lo partorì? Questa fede ci hanno tramandato i divini discepoli, anche se non hanno usato questa espressione; così abbiamo appreso a pensare dai santi Padri.

Cirillo d’Alessandria
Lettera ai monaci, 4


Nel 431 d.C. l’imperatore Teodosio II convocò il terzo concilio ecumenico a Efeso per risolvere la questione cristologica suscitata da Nestorio (381ca – 451ca d.C.), il patriarcha di Costantinopoli. Fondamentalmente, l’errore di Nestorio consistette nel negare l’unione ipostatica, cioè l’unione indivisibile della natura divina e della natura umana nella sola persona di Gesù Cristo. Nestorio non obiettò all’idea delle due nature di Cristo, ma associò ciascuna natura a una persona distinta. In altre parole, Nestorio considerò Cristo quasi come due persone — una divina e una umana — unite solo dalle loro attività comuni. Per Nestorio, dunque, la vergine Maria andava chiamata christotokos (madre di Cristo) anziché theotokos (madre di Dio) in quanto non riteneva possibile la nozione che Dio potesse nascere come essere umano.

Il principale avversario di Nestorio fu Cirillo (376 ca. – 444 d.C.), il vescovo di Alessandria, perché percepì problemi simili a quelli inerenti all’arianesimo. Nel negare la piena uguaglianza di Cristo a Dio, gli ariani avevano eretto un muro invalicabile tra Dio e l’umanità, tanto da impedirne qualsiasi contatto diretto. Secondo Cirillo, Nestorio aveva effettivamente riedificato quel muro di separazione, ricollocandolo all’interno della persona di Cristo. Simile all’adozionismo propagato nel III secolo da Paolo di Samosata (ovvero, il Figlio di Dio si sarebbe unito al già esistente Gesù di Nazaret), il Cristo nestoriano, diviso com’era in due persone distinte, non poteva mediare in sé stesso la riconciliazione tra Dio e l’umanità.

Seguendo invece l’apostolo Paolo che aveva dichiarato che “Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo” (2 Corinzi 5:19), Cirillo si accorse che rifiutare l’indivisibile unione di Dio e l’uomo nella sola persona di Cristo annullava questa riconciliazione, perché “in Cristo” Dio e l’uomo sarebbero rimasti eternamente separati. Contro Nestorio, Cirillo e il concilio di Efeso adottarono il termine theotokos per la vergine Maria, non per esaltare Maria (come per giustificare il culto mariano) ma per salvaguardare la divinità di suo Figlio!

Mentre “madre di Cristo” lasciava ambigua l’identità del figlio da lei partorito, “madre di Dio” era inequivocabile: il figlio di Maria non era un bambino qualsiasi ma il “Dio potente” (Isaia 9:5) che si era incarnato, Dio vero da Dio vero e Umano vero da Umano vero, uniti indivisibilmente nella sola persona di Gesù. Così, Cirillo e il concilio ribadirono l’insegnamento biblico che “al Padre piacque di far abitare in [Cristo] tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce (...) nel corpo della sua carne” (Colossesi 1:19-20, 22).

Patrizio d'Irlanda

Patrizio d'Irlanda e il Grande Mandato

La figura di Patrizio (385ca – 461 d.C.), “l’apostolo d’Irlanda”, è avvolta dal mistero grazie a tante leggende riguardanti la sua vita. Tuttavia, se ne possono tracciare le linee generali. Nato in Britannia, catturato e schiavizzato a sedici anni da pirati irlandesi, convertito al Signore durante la sua cattività, affrancato sei anni dopo, poi chiamato a tornare in Irlanda per evangelizzare lo stesso popolo che l’aveva rapito. La sua fu una vita molto drammatica. Quando, intorno al 431 d.C., Patrizio rientrò in Irlanda, l’intera popolazione era pagana, senza Cristo e senza speranza. Ma alla fine della sua vita, la fede cristiana si era divulgata in tutto il paese.

È facile pensare che Patrizio sia stato un uomo ineguagliabile, uno alla cui altezza nessuno di noi potrebbe mai essere. Ma una tale nozione sarebbe totalmente contraria a ciò che Patrizio testimoniò.


«Io Patrizio, peccatore, povero ignorante, l’ultimo fra tutti i fedeli,(…) avevo allora quasi sedici anni quando fui catturato. Non conoscevo il vero Dio e fui portato in Irlanda in prigionia insieme a tante migliaia di persone, come ci eravamo meritati, perché ci allontanammo da Dio. (...) E lì il Signore aprì l’intelligenza del mio cuore incredulo, sì che almeno tardivamente io potessi rammentare le mie colpe e mi convertissi con tutto cuore al Signore mio Dio. (...)»

«E quindi non posso tacere — e neppure conviene — tanti benefici e tanta grazia che il Signore si è degnato di concedermi, nella terra della mia prigionia; perché questo è ciò che possiamo rendergli in contraccambio: dopo la correzione e il riconoscimento di Dio, esaltare e confessare le sue meraviglie davanti a ogni nazione che è sotto ogni cielo. (...) Perciò dunque bisogna pescare proprio bene e con zelo, come il Signore esorta e insegna dicendo: ‘Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini’ (Matteo 4:19).»

«Dio sa che io desideravo tanto [tornare in patria, dai miei parenti], ma sono avvinto dallo Spirito, che mi attesta che, se farò questo, mi denuncia in anticipo come reo, e temo di sciupare la fatica che ho iniziato, e non io ma Cristo Signore, che mi comandò di venire a stare con loro per il resto della mia vita. (...) Ecco, ora affido la mia vita al mio Dio, sempre fedele, per il quale fungo da ambasciatore nonostante la mia condizione miserabile.»

Patrizio d'Irlanda
Confessio
(1-3,40,43,56)


Ubbidiente al comando di Cristo, Patrizio tornò nel paese della sua cattività, non facendo “nessun conto della [sua] vita, come se [gli] fosse preziosa, pur di (...) testimoniare del vangelo della grazia di Dio” (Atti 20:24). Qualunque fossero i suoi difetti, Patrizio serve “di esempio a quanti in seguito avrebbero creduto” in Cristo (1 Timoteo 1:15-16), perché ogni cristiano deve reputarsi, come l’apostolo Paolo, “servo di Cristo Gesù (...) messo a parte per il vangelo di Dio (...) debitore verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti (...) pronto ad annunciare il vangelo” (Romani 1:1, 14-15).

Flaviano, Patriarca di Costantinopoli

La Definizione di Calcedonia

Perciò, seguendo i santi Padri, noi tutti di unico accordo insegniamo agli uomini di conoscere uno e lo stesso Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, completo nella Divinità e nell’umanità allo stesso tempo, autenticamente Dio ed autenticamente uomo, essendo completo di un’anima razionale e di un corpo; di una sostanza con il Padre per quanto riguarda la sua divinità e allo stesso tempo di una sostanza con noi per quanto concerne la sua umanità; come noi in tutti gli aspetti eccetto che nel peccato; (…) uno e lo stesso Cristo, (…) riconosciuto in due nature, senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione.

tratto dalla
Definizione di Calcedonia
451 d.C.


La decisione presa a Efeso nel 431 d.C. di condannare l’errore nestoriano non pose fine al dibattito cristologico. Nel 444, Eutiche, un monaco di Costantinopoli, cercò di reprimere una nuova ondata del nestorianesimo con ciò che credeva fosse la posizione di Cirillo d’Alessandria. Tuttavia, Eutiche insistette così tanto sull’unità della persona di Cristo che finì con l’attribuirgli una sola natura, un’amalgamazione di divinità e umanità. In effetti, Eutiche concepì Cristo come un terzo tra Dio e l’umanità, né pienamente divino né pienamente umano.

Pur essendo favorita dal patriarca di Alessandria, Dioscoro, la dottrina di Eutiche (eutichianesimo oppure monofisismo) trovò un avversario nel patriarca di Costantinopoli, Flaviano. Il problema inerente al monofisismo era simile a quello dell'apollinarismo: se Cristo fosse mancato di una natura umana completa, "simile ai suoi fratelli in ogni cosa", non avrebbe potuto "compiere l’espiazione dei peccati del popolo" (Ebrei 2:17). Il Cristo di Eutiche non avrebbe avuto una natura umana come la nostra e, di conseguenza, non avrebbe potuto sostituirsi al nostro posto, divenendo "maledizione" per "riscattarci dalla maledizione della legge" (Galati 3:13).

Il conflitto tra Dioscoro e Flaviano indusse l’imperatore, Teodosio II, a convocare un altro concilio a Efeso nel 449 per risolvere la questione. Flaviano, nonostante l’appoggio di Leone I nel Tomus ad Flavianum, fu ucciso dai sostenitori di Eutiche durante il concilio, e l’opposizione al monofisismo fu soppressa. Indignato, Leone I rifiutò di accettare l’esito del concilio e ne pretese un altro, ma l’imperatore glielo negò. Questo conflitto avrebbe scisso la chiesa in due se non per la morte di Teodosio e l’ascesa di un imperatore sfavorevole alle idee di Dioscoro ed Eutiche.

Così avvenne che nel 451 fu convocato il concilio di Calcedonia, il quarto concilio ecumenico, che condannò il monofisismo e definì la dottrina dell’unione ipostatica (due nature distinte ma unite nella sola persona di Cristo). I padri conciliari concordarono che la relazione delle due nature di Cristo doveva essere intesa così: senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione. Questa formula, o logica, calcedonese risultò efficace nell’evitare sia il monofisismo sia il nestorianesimo e, successivamente, si dimostrò utile nel precisare altri argomenti teologici. Purtroppo, la Definizione di Calcedonia non fu accettata ovunque, e i monofisiti rimasti in Egitto e in Medio-Oriente si separarono e formarono, rispettivamente, la chiesa copta e siriaca.

Benedetto da Norcia

Benedetto da Norcia e il Ritmo Monastico

Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

tratto dalla
Regola di S. Benedetto
516 d.C.


Così inizia la famosa regola di vita che Benedetto da Norcia (480ca – 547 d.C.) scrisse per scandire il ritmo quotidiano dei monaci benedettini. Nato in una famiglia nobile, Benedetto rinunciò ai suoi privilegi dopo aver osservato la sfrenata corruzione della chiesa mentre studiava a Roma. Benedetto si dedicò alla vita monastica, dedicandosi completamente alla predicazione della Parola di Dio e alla santità.

Benedetto fondò diversi monasteri, compreso quello di Montecassino, occupandosi dell’organizzazione e della cura spirituale. Compose la regola che governava ogni aspetto della vita comunitaria all’interno del monastero con lo scopo di “istituire una scuola del servizio del Signore” in cui si potevano praticare la pietà e l’obbedienza a Cristo. Secondo Atanasio, “sui monti le abitazioni dei solitari erano come dimore piene di cori divini che cantavano i salmi, studiavano la parola di Dio, digiunavano, pregavano, esultavano nella speranza dei beni futuri, lavoravano per poter fare l’elemosina, vivevano in amore e concordia vicendevole. Si poteva vedere veramente una regione solitaria tutta consacrata al servizio di Dio e alla giustizia” (La Vita di Antonio, 44).

Purtroppo, i fermenti monastici spesso tendevano a ritenere meritevoli le buone opere al fine di guadagnare il favore di Dio. Questo legalismo, come notò Giovanni Calvino secoli dopo, spesso sfociava nell’arroganza, vantandosi che “il carico che [i monaci] s’impongono è più pesante di quanto sia stato quello imposto da Gesù Cristo ai suoi discepoli” (Istituzione, IV.xiii.12). Pur riconoscendo che è “[c]osa bellissima abbandonare i propri beni per essere libero da ogni sollecitudine terrena,” Calvino insistette che “Dio (...) apprezza maggiormente la condizione di un uomo, che libero da ogni spirito di avarizia, ambizioni, concupiscenza carnale, abbia cura di governare rettamente e santamente la sua famiglia, ponendosi quale meta il servire Dio in una giusta vocazione e da lui approvata” (Istituzione, IV.xiii.16).

Si noti, tuttavia, che Calvino riconobbe il valore educativo del monachesimo nei primi tempi della chiesa quando “le scuole e le assemblee di monaci fungevano (...) da vivaio per fornire buoni ministri alla Chiesa” (Istituzione, IV.xiii.8). Ciò che turbava Calvino era la segregazione della vita monastica da quella quotidiana che proibiva a tutti i credenti di avvalersi dei ritmi regolari di preghiera, meditazione sulle Scritture, e lode comunitaria. Lungi dal voler eliminare la vocazione monastica, Calvino desiderava renderla accessibile a tutti senza una richiesta di abbandono ai doveri civici, lavorativi e familiari. Come scrisse l’apostolo Paolo all’intera — non a solo una parte della — comunità cristiana a Roma: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale” (Romani 12:1).

Imperatore bizantino Giustiano I

Il Concilio di Costantinopoli II e la Supremazia di Dio

Chi non confessa che il Padre, il Figlio e lo Spirito santo hanno una sola natura o sostanza, una sola virtù e potenza, poiché essi sono Trinità consostanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi, o persone, sia anatema. (...) Se qualcuno afferma (…) che il Dio Verbo si è unito col Cristo nato dalla donna, o che egli è in lui come uno in un altro; e non confessa invece, un solo e medesimo signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio, che si è incarnato e fatto uomo (…) costui sia anatema. (...) Chi non scomunica (…) tutti gli altri eretici, condannati e scomunicati dalla santa chiesa cattolica e apostolica e dai quattro predetti santi concili (…) e persiste nella propria empietà fino alla morte, sia anatema.

Anatemismi contro
i Tre Capitoli, I, III, IV


Il motivo per cui l’imperatore bizantino Giustiano I convocò il quinto concilio ecumenico, tenuto a Costantinopoli nel 553 d.C., fu semplice: si sentiva il bisogno di riaffermare in termini inequivocabili le verità bibliche riconosciute dai quattro concili precedenti (Nicea, Costantinopoli I, Efeso, Calcedonia) a scogliere alcuni dubbi. Ad esempio, alcune chiese sospettavano che la Definizione di Calcedonia segnasse una ricaduta nell’errore nestoriano, suddividendo Cristo in due persone. Il concilio ribadì la posizione calcedonese e condannò il nestorianesimo attraverso quattordici anatemismi contro i cosiddetti “Tre Capitoli”, alcuni scritti nestoriani, compresi quelli di Teodoro di Mopsuestia ormai considerato il padre dell’eresia.

Il concilio si adoperò anche per esplicitare l’implicita teo-logica di Calcedonia riassunta dalla duplice concezione di an-ipostasi e en-ipostasi. Questi termini, coniati da Leonzio di Bizantio (485ca – 543 d.C.), precisarono la relazione tra le due nature di Cristo. An-ipostasi (“non persona”) significa che l’umanità di Gesù non aveva l’esistenza prima del o indipendente dal Figlio di Dio che si incarnò. Dall’altro canto, en-ipostasi (“in persona”) significa che nell’incarnarsi, il Figlio di Dio diede una piena e vera esistenza all’umanità di Gesù di Nazaret, il figlio nato dalla vergine Maria e crocifisso sotto Ponzio Pilato.

In sostanza, l’an-ipostasi e l’en-ipostasi sottolineano l’assoluta supremazia di Dio. Come nella persona di Cristo, noi dipendiamo totalmente dalla grazia di Dio per la nostra intera esistenza, eppure quella dipendenza ci rende totalmente responsabili per la nostra vita nei confronti di Dio. Dall'incarnazione impariamo che “tutto di Dio” non significa “niente di noi” ma “tutto di noi”. Questa teo-logica ci fornisce, dunque, il modo per comprendere la relazione tra l’assoluta sovranità di Dio e la piena responsabilità dell’umanità.

Altri atti notevoli del concilio furono la condanna dell'apocatastasi (ovvero la salvezza universale) e l’affermazione della verginità perpetua di Maria. Quest’ultima dimostra che anche i concili ecclesiali possono errare e che le loro dichiarazioni devono essere sempre sottoposte alla supremazia della Parola di Dio che, in fin dei conti, pronuncia sempre l‘ultima parola. Questo è, infatti, il significato più profondo del quinto concilio ecumenico.

Massimo il Confessore

Massimo il Confessore e il Concilio di Costantinopoli III

Predichiamo anche, in lui, due volontà naturali e due operazioni naturali, indivisibilmente, immutabilmente, inseparabilmente, inconfusamente, secondo l’insegnamento dei santi padri. (...) Come, infatti, la sua carne si dice ed è carne del Verbo di Dio, così la naturale volontà della carne si dice ed è volontà propria del Verbo di Dio, secondo quanto egli stesso dice: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato, intendendo per propria volontà quella della carne, poiché anche la carne divenne sua propria. (…) Così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu annullata, ma piuttosto salvata, secondo quanto Gregorio, divinamente ispirato, dice: “Quel volere, che noi riscontriamo nel Salvatore, non è contrario a Dio, ma anzi è trasformato completamente in Dio”.

Concilio di Costantinopoli III
Esposizione della Fede


Col passare dei secoli, la chiesa riuscì a risolvere la maggior parte delle dispute intorno alla Trinità e alla persona di Gesù Cristo, chiarendo a man a mano queste dottrine centrali con una sempre più maggiore precisione. Tra le chiese, tuttavia, che accettarono le posizioni prese ai cinque concili ecumenici precedenti sorse una controversia riguardante la teologia monotelita secondo la quale Cristo avrebbe avuto una sola volontà, quella divina. Tra i principali fautori furono i patriarchi orientali Sergio (che propose per primo il monotelismo per riconciliare i cristiani calcedonesi e i monofisiti) e Pirro, il papa Onorio I (condannato successivamente al VI concilio ecumenico), e l’imperatore Costante II.

Non tutti però ne rimasero convinti. In particolare, Massimo il Confessore (580 – 662 d.C.), un monaco e teologo bizantino, obbiettò all’insegnamento dei monoteliti, sostenendo invece il ditelismo: Cristo aveva due volontà nella sua sola persona, una divina e una umana, corrispondenti alle sue due nature. Lungi da considerarla una questione irrilevante, Massimo ne capì l’enorme importanza, poiché messa in gioco fu la verità biblica espressa secoli prima da Gregorio Nazianzeno: “Ciò che non è assunto non è guarito, mentre ciò che è unito a Dio viene salvato.” Se Cristo, pur avendo una volontà divina, non avesse posseduto anche una volontà umana come la nostra, non l’avrebbe potuta redimere. Massimo asserì, dunque, che il Figlio di Dio, quando s’incarnò, avrebbe dovuto assumere anche la volontà umana per poterla purificare e riportare vicariamente in sottomissione a Dio.

Massimo ritenne così importante la dottrina ditelita che sopportò forti persecuzioni per difenderla. Fu esiliato e, dopo essere stato condannato da un sinodo monotelita nel 662 d.C., gli furono tagliate la lingua e la mano destra, perché con queste aveva confessato la sua fede. Soprannominato dunque “il Confessore”, Massimo morì quello stesso anno nell’ignominia, ma il VI concilio ecumenico (680 – 681), Costantinopoli III, lo discolpò e riconobbe il ditelismo come la dottrina ortodossa. “Pur avendo avuto buona testimonianza per la fede”, Massimo non ottenne “ciò che era stato promesso”; ma considerando “colui che ha sopportato una simile ostilità”, corse “con perseveranza la gara che [gli fu] proposta” (Ebrei 11:39; 12:1,3).

Imperatore bizantino Leone III

Il Concilio di Nicea II e l'Immagine di Dio

Dopo ricerche, quindi, e discussioni diligentissime, con l’unico scopo di seguire la verità, noi né togliamo né aggiungiamo cosa alcuna; vogliamo solo conservare intatto tutto ciò che è della chiesa cattolica.

tratto dalla
Definizione di Nicea II


Il settimo (e ultimo) concilio ecumenico della chiesa si tenne a Nicea nel 787 d.C. per discutere il controverso argomento dell'uso delle immagini nei culti. I tentativi dell’imperatore bizantino Leone III (regnante dal 717 al 741) e il suo successore, Costantino V (740 – 775), di porre fine a questa pratica provocò non pochi conflitti nelle chiese sparse per l’impero. In gioco fu la seguente questione: usare le immagini nell’adorazione cristiana infrange i comandamenti di Dio contro l’idolatria? Gli iconoduli lo consideravano appropriato, mentre gli iconoclasti, come Leone III e Costantino V, lo giudicavano intollerabile.

Il concilio di Nicea II definì il suo unico compito quello di conservare la fede cristiana tramandata dai padri della chiesa. Come il decreto emanato dal concilio riassunse: “In poche parole, noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz’altro a confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio.”

Interessante è notare come questa affermazione, ispirata in parte dalle opere teologiche di Giovanni Damasceno (676 ca – 749), fu ritenuta coerente con la fede evangelica. Molti evangelici contemporanei non condividerebbero questa convinzione. Noi evangelici siamo costretti a dissentire dalla venerazione delle immagini e dall'evidente slittamento verso la mariologia nel decreto conciliare. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare la verità fondamentale che i padri conciliari intendevano salvaguardare, una verità indispensabile per la retta predicazione del vangelo, ossia “la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio”. Come sostenne l’apostolo Paolo, “Cristo Gesù (...), pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini” per salvare il mondo (Filippesi 2:5b-7).

Per quanto riprovevole ci possa sembrare, la decisione a favore dell’uso delle immagini nella chiesa servì, in quell’epoca, a rilevare l’assoluta importanza dell’umanità (vera e non apparente, piena e non parziale) che il Figlio di Dio assunse incarnandosi sulla terra. Nell’approvare l’uso di ritratti di Gesù in quanto uomo, si poteva altrettanto affermare che Gesù era uomo, come noi “in ogni cosa”, salvo il peccato, “per essere un misericordioso e fedele sommo sacerdote (...), per compiere l'espiazione dei peccati del popolo” (Ebrei 2:17). Inoltre, l’accento posto sulla piena umanità di Gesù mirò a infondere la speranza che anche noi saremo trasformati alla sua stessa immagine, compreso il suo corpo incorruttibile: “aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore, che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa” (Filippesi 3:20-21).

Innocente I

Il Papato Romano e il Grande Scisma

In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno.

tratto dalla
Donazione di Costantino


Nell’anno 1054 d.C. il cristianesimo subì un’epocale ma tragica vicenda che cambiò per sempre la sua storia: il Grande Scisma tra le chiese d’Occidente (cattolica) e d’Oriente (ortodossa). Spesso si attribuisce lo scoppio dello scisma al conflitto circa l’inserimento dell’espressione filioque (“e dal Figlio”) nel Credo Niceno-Costantinopolitano. La questione riguardava la relazione dello Spirito Santo al Padre e al Figlio. Il Credo affermava semplicemente che lo Spirito “procede dal Padre”, e la filioque, reclamata dalle chiese occidentali, aggiunse che lo Spirito “procede (...) anche dal Figlio”. La dottrina aveva la sua importanza, ma la vera causa dello scisma fu ben diversa: il concetto del primato papale.

Il primato del papato romano si sviluppò solo dopo la morte degli apostoli e solo attraverso una lunga serie di avvenimenti. Con l’indebolimento dell’impero in Occidente e l'ascesa di Costantinopoli in Oriente, la chiesa di Roma e il suo vescovo provvidero a riempire il vuoto di potere. Fu Innocente I (402 - 417) a radicare l’autorità del vescovo romano nel concetto del diritto divino concesso all’apostolo Pietro e i suoi successori. Successivamente, Leone I (440 - 461) si arrogò la prerogativa di intervenire con autorevolezza negli affari di tutte le chiese, facendosi nominare "vicario di Cristo". Intorno alla seconda metà dell’VIII secolo, fu composta la Donazione di Costantino, un documento falsamente attribuito al suddetto l'imperatore nel quale avrebbe conferito il suo potere imperiale al vescovo di Roma. Facendo leva su questo falso, molti papi successivi riuscirono a rafforzare la supremazia della loro posizione.

A prescindere dalla controversa filioque, dunque, la vera causa dello scisma fu la pretesa del papa Leone IX (1002 – 1054) di poter emanare decreti vincolanti a tutte le chiese, incluse quelle d’Oriente. Il patriarca di Costantinopoli, Michele I Cerulario (1000 – 1059), contestò le direttive impostegli dal papa, tra quali il celibato ecclesiastico e la tonsura della barba. Nel 1054, il papa e il patriarca si scomunicarono a vicenda, e la divisione tra Occidente e Oriente fu sigillata. Lo scisma dimostra le tragiche conseguenze che possono avverarsi quando si trascurano le parole di Gesù riguardante la vera autorità:

“Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi esercitano autorità su di esse. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:42-45).

Valdo di Lione

Valdo di Lione e il Rinnovamento Evangelico

E poiché la fede, secondo l’apostolo Giacomo, senza le opere è morta, abbiamo rinunciato al mondo e quel che noi avevamo, come ci è stato consigliato dal Signore, l’abbiamo distribuito ai poveri, decidendo di essere poveri, così da non preoccuparci del domani e senza accettare da nessuno né oro né argento o cose simili, tranne il vestito e il pane quotidiano. Ci siamo proposti di osservare i consigli evangelici come precetti.

Valdo di Lione
Professio


Con il continuo accumularsi di concrezioni non-bibliche nella chiesa medievale, spuntarono individui e movimenti che si adoperarono per il rinnovamento ecclesiale tramite un ritorno alla purezza del vangelo. Per contrastare il crescente potere papale, questi chiamarono la chiesa all’umiltà e al servizio. Per resistere alla costante tentazione di “considerare la pietà come fonte di guadagno” (Giovanni 2:16), questi rinunciarono alle ricchezze mondane e si accontentarono soltanto di nutrirsi e vestirsi (1 Timoteo 6:6-8).

Tra i vari fermenti riformatori dell’epoca fu Valdo di Lione (1140 – 1206 ca d.C.), un mercante francese a cui risale l’odierna chiesa evangelica valdese. Poche sono le informazioni accertabili sulla sua vita, ma è verosimile che egli svolse un’attività prosperosa finché non decise di vendere i suoi beni e vivere tra i poveri. Valdo avrebbe personalmente letto le Scritture e, prendendo con serietà l’insegnamento di Gesù, tentò di mettere in pratica una fede più autentica e conforme all’esempio del suo Signore. Valdo e tutti coloro che gli si unirono in questo impegno furono denominati i “poveri di Lione”. In più, i valdesi, donne incluse, si dedicarono alla predicazione itinerante del messaggio evangelico.

Valdo e i suoi poveri predicatori incorsero però nella censura della gerarchia ecclesiale. Essendo tutti laici, si dovettero presentare a Roma nel 1179 durante il terzo concilio lateranense per chiedere il permesso di predicare. A quanto pare non l'ottennero (neanche dopo averlo richiesto l’anno successivo al sinodo di Lione dove Valdo affermò il Professio), ma non smisero di svolgere ciò che ritennero la loro sacra vocazione. I primi valdesi furono pertanto scomunicati come eretici da papa Lucio III nel 1184 e subirono poi terribili persecuzioni. La scomunica previde l’accanito rifiuto da parte della chiesa romana di riformarsi secondo la Parola di Dio, un rifiuto che sarebbe culminato negli anatemi pronunciati dal Concilio di Trento (1545 – 1563) contro la teologia protestante a cui la chiesa valdese aderì nel 1532.

Oggi, ricordiamo Valdo di Lione e i suoi poveri predicatori come buoni esempi del fedele servizio evangelico: “Ai ricchi in questo mondo ordina di non essere d’animo orgoglioso, di non riporre la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare, così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita” (1 Timoteo 6:17-19).

Anselmo d'Aosta

Anselmo d'Aosta e la Ragione della Fede

Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine, affinché, memore, ti pensi e ti ami. Ma l’immagine è così cancellata dall’attrito dei vizi, è così offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò che dovrebbe, se Tu non la rinnovi e la riformi. Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità poiché in nessun modo posso metterle a pari il mio intelletto; ma desidero comprendere in qualche modo la tua verità, che il mio cuore crede ed ama. Non cerco infatti di comprendere per credere, ma credo per comprendere.

Anselmo d’Aosta
Proslogion, cap. I


Anselmo d’Aosta (1033 ca – 1109 d.C.) fu un teologo italiano che divenne priore di un’abbazia benedettina in Normandia e poi arcivescovo di Canterbury in Inghilterra. Anselmo, soprannominato Doctor magnificus, è ricordato oggi non tanto per la sua vita quanto per il suo pensiero riguardante “la ragione della fede”. Spesso Anselmo è raffigurato come teologo-filosofo per il suo impegno nel far collimare la fede cristiana con la ragione umana. Questo approccio avrebbe certamente caratterizzato la scolastica medievale di Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo d’Ockham.

Bisogna chiedersi, però, se Anselmo sia veramente da associare a questi ultimi. Indubbiamente, egli ritenne indispensabile la ragione umana alla fede cristiana. La sua più celebre opera, Cur Deus homo? (“Perché un Dio-uomo?”), cercò di dimostrare la necessità dell’incarnazione di Cristo per la salvezza dell’umanità tramite ragionamenti logici. Va notato, tuttavia, che per Anselmo la fede fu l’imprescindibile punto di partenza per ogni ragionamento. La ragione utilizzata da Anselmo è quella battezzata nella Parola e nello Spirito, frutto della mente rinnovata e trasformata all’immagine di Dio (Efesini 4:21-24). In quest’ottica, la ragione non è un ausilio logico che supplisce alla fede, come la filosofia. Essa è invece il modo in cui il credente pensa in conformità alla “mente di Cristo” (1 Corinzi 2:16).

Ecco il significato del famoso detto di Anselmo: “Non cerco di comprendere per credere, ma credo per comprendere.” A differenza di coloro che dicono — e degli apologisti cristiani che li assecondano — di non poter credere senza prima vedere, Anselmo sostenne che non si può vedere se prima non si crede. Questo è semplicemente ciò che Gesù insegnò in Giovanni 7:17 quando disse: “Se uno vuole fare la volontà di [Dio], conoscerà se questa dottrina è da Dio”. Oppure, come similmente osservò il riformatore Giovanni Calvino: “la vera conoscenza di Dio nasce solo dall'obbedienza” (Istituto I.vi.2).

Nei vangeli, i primi discepoli dovettero impegnarsi a seguire Gesù prima di essere da lui ammaestrati: “Gesù disse loro: «Seguitemi, e io farò di voi dei pescatori di uomini»” (Marco 1:17). Così anche Anselmo si rese conto che non si può conoscere Dio a distanza. Lo conosce solo chi gli si sottomette, lasciandosi trasformare “mediante il rinnovamento della [sua] mente” (Romani 12:2) e “facendo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo” (2 Corinzi 10:4-5).

Tommaso d'Aquino

Tommaso d'Aquio e la Sintesi Cattolica

Siccome infatti la Grazia non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona, la ragione deve servire alla fede, nel modo stesso che l’inclinazione naturale della volontà asseconda la carità. (...) È così che la sacra dottrina utilizza anche l’autorità dei filosofi dove essi con la ragione naturale valsero a conoscere la verità.

Tommaso d’Aquino
Summa Theologica, I.1.8


Grazie al suo straordinario ingegno e la sua enorme produzione letteraria, Tommaso d’Aquino (1225 – 1274 d.C.), un frate domenicano soprannominato Doctor Angelicus, emerse come il più imponente teologo della Scolastica medievale, periodo di grandi fermenti intellettuali. La rilevanza di Tommaso si riassume nella parola sintesi. Tommaso partì dal presupposto che “la grazia non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona”. Vale a dire, l’essere umano, pur essendo corrotto, non manca delle capacità necessarie per poter cooperare con la grazia al fine di raggiungere la conoscenza di Dio e la propria salvezza. Ciò permise a Tommaso di servirsi della ragione umana naturale — nel suo caso del pensiero di Aristotele — per elaborare il suo sistema teologico.

La sintesi tomista sfocia in quasi ogni elemento del cattolicesimo romano che ancora risulta problematico dal punto di vista evangelico. Come spiega il documento redatto dall’IFED di Padova intitolato Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo:

“Il presupposto fondamentale del cattolicesimo è il motivo tomista di natura-grazia su cui s’innesta una concezione della chiesa come prolungamento dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Entrambi gli elementi (...) costituiscono la cornice ideologica di riferimento del cattolicesimo e sono rinvenibili in tutte le sue manifestazioni. Tale orientamento presupposizionale comporta per il cattolicesimo una visione non tragica del peccato, un certo ottimismo sulle capacità dell’uomo, una considerazione della salvezza come perfezionamento della natura, la legittimazione delle prerogative divine della chiesa e la necessità della sua mediazione tra Dio e l’uomo.”

Bisogna certo ammettere che Tommaso ci serve da esempio di come “consapevoli (...) del timore che si deve avere del Signore, cerchiamo di convincere gli uomini” del vangelo (2 Corinzi 5:11). In ultima analisi, però, sembra che Tommaso non abbia dato sufficiente retta alla pazzia del vangelo a tal punto da far “perire la sapienza dei saggi e annienta l’intelligenza degli intelligenti” (1 Corinzi 1:19). Infatti, come afferma l’apostolo Paolo: “Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo e per gli stranieri pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Corinzi 1:21-24).

In altre parole, la ragione umana non deve essere semplicemente perfezionata per giungere a Dio; piuttosto deve essere messa a morte e risuscitata con Cristo per poter apprendere la sapienza di Dio nel vangelo che stravolge tutte le nostre aspettative.

Giovanni Duns Scoto

Giovanni Duns Scoto e la Centralità di Cristo

Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale opera [l’incarnazione] se Adamo non avesse peccato sarebbe del tutto irragionevole! Dico dunque che la caduta non è stata la causa della predestinazione di Cristo, e che - anche se nessuno fosse caduto, né l’angelo né l’uomo - in questa ipotesi Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera.

Giovanni Duns Scoto
Reportata Parisiensia, in III Sent., d.7.4


A volte eclissato da Tommaso d’Aquino, il filosofo-teologo scozzese Giovanni Duns Scoto (1266 ca. – 1308 d.C.) fu nondimeno uno dei protagonisti più influenti della Scolastica medievale. Formato come francescano, Scoto studiò filosofia a Parigi e poi divenne docente alle Università di Oxford e di Cambridge. Tornato in Francia, portò a termine la sua carriera, insegnando teologia all’Università di Parigi. Scoto, soprannominato Doctor Subdilis per il suo raffinato e penetrante pensiero, si allontanò da Tommaso per alcuni punti critici.

In primo luogo, mentre Tommaso basò il suo sistema sull’analogia dell’essere (l’idea che esiste un collegamento tra Dio e il creato tanto che si può giungere alla conoscenza del primo riflettendo sul secondo), Scoto distinse la “teologia in sé” (l’autoconoscenza di Dio) dalla “teologia nostra” (la nostra conoscenza di Dio). L'importanza di questa distinzione stava nel ricordare che i consigli di Dio sono più alti dei nostri quanto “i cieli sono alti al di sopra della terra” (Isaia 55:9) e che qualsiasi “teologia nostra” è frutto solo dell’auto-rivelazione di Dio.

Ne conseguì, in secondo luogo, che Scoto distinse la teologia da quella detta "naturale" di Tommaso. Mentre quest’ultimo tentò una sintesi tra la ragione naturale e la rivelazione divina, Scoto indebolì il legame tra le due, collocando la teologia esclusivamente nel dominio del secondo. Come possiamo conoscere Dio "in sé", se lui non si fa conoscere a noi? Poiché “nessuno ha mai visto Dio”, veniamo a conoscerlo in un solo modo: “l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere” (Giovanni 1:18).

In terzo luogo, Scoto ribaltò la superiorità che Tommaso aveva assegnato all’intelletto e pose l’enfasi sulla volontà. In poche parole, la teologia tomista è definita “teorica” e mira alla conoscenza, mentre la teologia scotista è definita “pratica” e mira all’amore, conformandosi meglio all’insegnamento dell’apostolo Paolo: “Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve conoscere; ma se qualcuno ama Dio, è conosciuto da lui” (1 Corinzi 8:2-3).

Fondamentalmente, le differenze tra Tommaso e Scoto derivano dal "Cristocentrismo" di quest’ultimo. Scoto comprendeva la dichiarazione di Gesù che "nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo" (Matteo 11:27), Ciò esige una teologia strettamente cristocentrica, la quale fa "prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo (2 Corinzi 1:5). Purtroppo, il fatto che Scoto sviluppò anche la dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria ci avverte della perenne possibilità di commettere grossi errori quando Cristo non rimane sempre al centro di tutto.

Guglielmo d’Ockham

Guglielmo d'Ockham e la Sola Fede

Che Dio sia onnipotente non può essere dimostrato ma solo accettato per fede.

Guglielmo d'Ockham
Quodlibet I.1.7


Dopo Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto, il terzo protagonista principale della scolastica medievale fu Guglielmo d’Ockham (1285 – 1347 d.C.), il fondatore inglese del nominalismo. Come Tommaso e Scoto, Guglielmo fu un teologo, filosofo, e religioso (francescano). La rivoluzione nella teologia filosofica che provocò fu così radicale che fu ritenuta una “via moderna” in contrasto alla “via antiqua” di Tommaso e Scoto.

Guglielmo portò all’estremo lo scioglimento, iniziato da Scoto, della sintesi tomista tra la fede e la ragione, tanto da scindere l’una dall’altra. Egli sostenne che l’uomo non è capace di conoscere Dio senza l’auto-rivelazione di quest’ultimo. Per questo motivo, Guglielmo insegnò che si può acquisire la conoscenza di Dio solo per mezzo della fede, e che la ragione, e la filosofia da essa generata, è di nessun giovamento quando si tratta di questioni teologiche o spirituali.

Stando alla base di questa convinzione, fu l’enfasi ockhamista sulla volontà di Dio come supremo arbitro e causa efficace di ogni cosa (il volontarismo). Secondo Guglielmo, tutto ciò che esiste o accade è dovuto esclusivamente e infallibilmente all’imperscrutabile volontà divina. Quello che Dio ha deciso di fare (il suo potere ordinato) avrebbe potuto essere diverso se egli l’avesse voluto così (il suo potere assoluto). A causa di ciò, Guglielmo insistette, contro Tommaso, che non si possono dedurre quali sono le vie di Dio dagli effetti visibili che producono, perché Dio com’è in sé si cela dietro il modo in cui ha arbitrariamente deciso di manifestarsi. Guglielmo ipotizzò addirittura che Dio avrebbe potuto incarnarsi come un asino anziché un essere umano per salvare il mondo.

È indubitabile che nel suo zelo di contrastare la sintesi tomista, Guglielmo si lasciò trasportare da idee congetturali e persino assurde. Pur minando la certezza cristiana che il Dio conosciuto in Gesù non è altro che Dio com’è in sé stesso, Guglielmo recuperò un principio fondamentale che era stato trascurato dalla chiesa medievale, un principio che avrebbe poi svolto un ruolo determinante nella formazione di un monaco agostiniano di nome Martin Lutero. Non è affatto un caso che Guglielmo fu censorato per aver smentito le pretese papali all’infallibilità e al potere temporale.

La negazione delle capacità umane di giungere a Dio e l’affermazione della fede quale unico mezzo di accettare la sua rivelazione crearono il fertile terreno dal quale sarebbe spuntata la scoperta di Lutero: “Non è giusto colui che opera molto, ma lo è chi, senza le opere, crede molto in Cristo” (Disputa di Heidelberg, tesi 25). Oppure, come dice l’apostolo Paolo: “Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia” (Romani 4:4-5).

Papa Bonifacio VIII

Il Regno di Dio e il Regno dell'Uomo

Secondo la testimonianza della verità, il potere spirituale ha il diritto di stabilire il potere temporale e, qualora esso non si dimostri buono, di giudicarlo. (...) Sebbene questa autorità sia concessa a ed esercitata da un uomo, non è umana ma divina. (...) Dunque noi dichiariamo (...) che è assolutamente necessario alla salvezza di ogni creatura umana che essa si sottometta al pontefice romano.

Papa Bonifacio VIII
Unam Sanctum Ecclesiam


Nel Basso Medioevo, i poteri universali del papato romano giunsero al culmine. Rispecchiando la sintesi elaborata da Tommaso d’Aquino di natura-grazia e ragione-rivelazione, i papi romani cercarono di unire il potere spirituale della chiesa a quello temporale dello stato. Senza abolire le autorità secolari, i papi pretesero di poterle governare in modo assoluto. Secondo la bolla Unam Sanctum Ecclesiam, emanata nel 1302 da papa Bonifacio VIII, il vescovo di Roma era l’unico beneficiato, benché uomo, di esercitare la signoria di Dio sul mondo. Questo avrebbe naturalmente portato a non pochi conflitti con le monarchie nazionali nascenti, ma ciò non frenò la crescente presunzione papale di poter dettare il destino di tutti.

Conseguenza tragica di questa sintesi tra poteri spirituale e temporale furono le sanguinose crociate tra l’XI e il XIII secolo per riconquistare territori medio-orientali controllati dai musulmani. Deposto l’asciugatoio di Gesù e impugnata la spada di Cesare, i papi pensarono di poter ristabilire così il regno di Dio con la forza dell’uomo, e per questo motivo le crociate causarono innumerevoli morti e incalcolabile distruzione. Il papato ignorava infatti le parole lampanti di Gesù in Matteo 20:25-28:

“Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano autorità su di esse. Ma non dovrà essere così tra di voi: anzi, chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo; appunto come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.”

Per stabilire il suo regno, Gesù fu coronato di spine e non di oro; fu innalzato su una croce e non su un trono. Davanti a Pilato, Gesù predicò: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi consegnato ai Giudei; ma ora il mio regno non è di qui” (Giovanni 18:36). Se il Maestro percorse la via al Calvario, guai se la chiesa ne percorre un'altra! La nostra vocazione è invece questa:

“Se siamo afflitti, è per la vostra consolazione e salvezza. (...) Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù” (2 Corinzi 1:6; 4:5).

Se solo il papato avesse ubbidito a queste parole, forse si sarebbero evitate tantissime sofferenze e tragedie nella storia della chiesa. Che non sia così oggi!

Martino V

La Crisi Papale e la Necessità di Riforma

Questo santo sinodo di Costanza (…), legittimamente riunito nello Spirito santo, essendo concilio generale ed espressione della Chiesa cattolica militante, riceve il proprio potere direttamente dal Cristo e che chiunque di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirgli in ciò che riguarda la fede e l’estirpazione dello scisma.

Haec sancta
6 aprile 1415

Ugualmente, se crede che il papa canonicamente eletto, per tutto il tempo in cui è in carica, una volta scelto il proprio nome, è il successore del beato Pietro e possiede la suprema autorità nella chiesa di Dio.

Martino V
Inter cunctas
22 febbraio 1418


Nel 1378, la chiesa d’Occidente affrontò una grande crisi precipitata dalla decisione di Gregorio XI nel 1377 di trasferire la sede papale da Avignone, dove si era trovata dal 1316, di nuovo a Roma. Dopo la morte di Gregorio, due papi furono eletti: Urbano VI dal conclave a Roma e, cinque mesi dopo, Clemente VII dai cardinali che vollero tenere il papato ad Avignone. L’elezione di due papi rivali creò un grande dilemma all’interno della chiesa: se il papa, in quanto vicario di Cristo, ha la suprema autorità sulla chiesa, a chi bisogna ubbidire quando ce ne sono due, entrambi eletti in maniera legittima, che rivendicano lo stesso potere? Di conseguenza, la chiesa risultò divisa tra “l’obbidienza romana” e “l’obbidienza avignonese”.

Il concilio di Pisa nel 1409 provò a conciliare le due fazioni. Dichiarando eretici e scismatici sia il papa a Roma (Gregorio XII) sia il papa ad Avignone (Benedetto XIII), il concilio elesse un terzo papa, Alessandro V. Gli altri due papi rifiutarono entrambi di accettare la decisione conciliare, e dunque il numero di papi rivali aumentò a tre. La crisi si prolungò fino al concilio di Costanza (1414 – 1418) che depose due dei papi, ottenne l'abdicazione del terzo, e stabilì Martino V come l’unico papa legittimo.

Il problema di fondo persisteva, assunse però una forma diversa. Per risolverlo, il concilio dovette rivendicare un’autorità superiore a quella papale tramite il controverso documento Haec sancta. Tuttavia, lo stesso Martino, eletto grazie a questa decisione, la smentì poco dopo nella sua Bolla inter cunctas in cui si arrogò di nuovo “la suprema autorità nella chiesa di Dio”!

La crisi rivelò i difetti inerenti al sistema cattolico. L’apostolo Paolo asserì che solo Cristo è “al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro”. Solo Cristo è colui che Dio Padre “ha dato per capo supremo alla chiesa” (Efesini 1:21-22). Se la gerarchia ecclesiale tenta di usurpare il primato di Cristo, commette un peccato non meno grave di quello di Adamo ed Eva che desiderarono diventare “come Dio” (Genesi 3:5). La chiesa medievale, pertanto, aveva bisogno di rimettersi sotto la Parola di Dio come autorità suprema. Aveva bisogno di una riforma.

John Wycliffe

John Wycliffe, Jan Hus e la Vigilia della Riforma

Perciò, fedele cristiano, cerca la verità, ascolta la verità, apprendi la verità, ama la verità, di’ la verità, attieniti alla verità, difendi la verità fino alla morte: perché la verità ti farà libero dal peccato, dal demonio, dalla morte dell’anima e in ultimo dalla morte eterna che significa eterna separazione dalla grazia di Dio e da ogni gioia benedetta, di quella gioia, cui partecipa chiunque crede in Dio ed in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.

Jan Hus
Spiegazione della Confessione di fede, 1412


Che la chiesa del tardo medioevo avesse bisogno di riforma non era in dubbio. La corruzione dilagante della gerarchia ecclesiale, la speculazione irrilevante degli scolastici, la decadenza spirituale degli ordini religiosi e la mancanza generale della pietà contribuirono al declino del cristianesimo in Occidente. Sorsero di conseguenza diversi fermenti rinnovatori all’interno della chiesa, tutti con lo scopo di ripristinarla in conformità al vangelo.

Uno di questi nacque in Inghilterra quando un teologo di nome John Wycliffe (1331 – 1384 d.C.) cominciò a contestare il primato papale, l’autorità interpretativa attribuita al magistero romano e la concezione filosofica della transustanziazione. Wycliffe sostenne che tali idee erano incoerenti con la Bibbia quale unico fondamento della fede. La gerarchia ecclesiale subito condannò le sue tesi, ma i suoi scritti, e soprattutto la sua traduzione della Bibbia in inglese, gli procurò un seguito notevole (i lollardi) grazie al quale la sua influenza si diffuse anche all’estero.

Il teologo boemo Jan Hus (1371 – 1415 d.C.), sacerdote e professore presso l’università di Praga, fu uno dei primi propugnatori di queste idee. Nel 1402 Hus assunse l’incarico di predicare nella Cappella di Betlemme, luogo dedicato all’esposizione delle sacre Scritture in lingua ceca anziché latino. Prendendo spunto dal pensiero di Wycliffe, Hus esaltò l’autorità delle Scritture in quanto parola di Dio superiore a qualsiasi parola umana. Egli mise l’accento sul primato della verità, ovvero la verità che risiede in Cristo “nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Colossesi 2:3).

Attirandosi un sempre più numeroso pubblico, i sermoni di Hus ravvivarono su larga scala lo spirito riformatore di Wycliffe. Lo scontro tra Hus e la gerarchia ecclesiale fu dunque solo una questione di tempo. Esso giunse al culmine nel 1414 quando a Hus fu promesso il salvacondotto per presentarsi al Concilio di Costanza laddove avrebbe potuto difendere il suo credo. Arrivato al concilio, però, Hus fu sequestrato, processato per eresia, e infine condannato a morte. Il 6 luglio 1415 il riformatore ceco fu legato e arso sul rogo. Cantò inni di lode fino al suo ultimo respiro.

È testimoniato che prima di morire, Hus (il cui cognome significa “oca”) dichiarò ai suoi giudici: “Oggi voi bruciate un’oca, ma dalle ceneri sorgerà un cigno”. Furono parole quasi profetiche; Hus, come Wycliffe prima di lui, accese una scintilla di riforma che circa cento anni dopo avrebbe innescato un incendio inarrestabile.

Martin Lutero

Martin Lutero e la Riscoperta del Vangelo

Ho semplicemente insegnato, predicato e scritto la Parola di Dio; oltre a questo non ho fatto niente. E mentre dormivo, o bevuto la birra di Wittenberg con i miei amici Filippo e Amsdorf, la Parola ha così indebolito il papato che nessun principe o imperatore avrebbe potuto mai infliggere tali perdite a esso. Non ho fatto niente; la Parola ha fatto tutto.

Martin Lutero
dal sermone predicato il 10 marzo 1522 a Wittenberg


Post tenebras lux; dopo le tenebre, la luce. Questo motto riassume la storia della Riforma Protestante del XVI secolo. Col passare dei secoli dopo Cristo, la luce del vangelo era rimasta offuscata dalle concrezioni dottrinali, liturgiche, e giuridiche accumulate. Il 31 ottobre 1517, un nuovo giorno albeggiò quando Martin Lutero, un monaco agostiniano e professore di teologia all’università di Wittenberg, pubblicò una serie di 95 tesi che mettevano in discussione la vendita abusiva delle indulgenze papali. In realtà, questo gesto non fu di per sé rimarchevole in quanto l’università di Wittenberg organizzava spesso dibattiti pubblici su questioni simili. Eppure, nella sovranità di Dio, esso catapultò Lutero al centro di ciò che sarebbe diventato la Riforma Protestante.

Nella prefazione all’edizione dei suoi scritti pubblicata nel 1545, Luterò stesso testimoniò quale fu la scintilla che squarciò le tenebre e riaccese la luce del vangelo:

Ero stato afferrato da un desiderio, certo singolare, di conoscere Paolo nella Lettera ai Romani. (…) Odiavo infatti quest’espressione, ‘giustizia di Dio’ [Romani 1:17] (…) per la quale Dio è giusto e punisce i peccatori ingiusti. Io però, che mi sentivo davanti a Dio peccatore con la coscienza molto inquieta, benché vivessi come un monaco irreprensibile, né potevo confidare di trovar pace mediante le mie opere riparatrici, non amavo, anzi odiavo questo Dio giusto che punisce i peccatori. (…) E tuttavia continuavo a sollecitare Paolo a proposito di quel passo, senza dargli tregua, desiderando ardentemente sapere che cosa egli volesse dire Finché, avendo Dio compassione di me, mentre meditavo giorno e notte (…) cominciai a comprendere che la giustizia di Dio è quella grazie alla quale il giusto vive per il dono di Dio, cioè per la fede, e che la frase: ‘la giustizia di Dio è rivelata mediante l’Evangelo’ va intesa nel senso della giustizia (…) grazie alla quale Dio misericordioso ci giustifica per mezzo della fede, come è scritto: ‘il giusto vivrà per fede’. A questo punto mi sentii letteralmente rinascere e mi sembrò di entrare direttamente in paradiso, le cui porte si erano spalancate.

E non solo. Dio si servì di Lutero per spalancare le porte del paradiso anche per tanti altri, compresi noi membri della chiesa evangelica protestante. Ringraziamo il Signore per questo suo servo che, nonostante i suoi molteplici difetti, richiamò la chiesa alla buona notizia che “l’uomo non è giustificato per le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 2:16).

Federico il Saggio di Sassonia

La Nascita della Chiesa Protestante

A meno che non venga convinto da testimonianze delle scritture o da ragioni evidenti; poiché non confido né nel Papa, né nel solo Concilio, poiché è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi. Sono tenuto saldo dalle scritture da me addotte, e la mia coscienza è prigioniera dalla parola di Dio, ed io non posso ne voglio revocare alcunché, vedendo che non è sicuro o giusto agire contro la coscienza. Dio mi aiuti. Amen.

Martin Lutero
alla Dieta di Worms
1521


In seguito a un’attenta rilettura della Bibbia, Martin Lutero, persuaso dall’idea di riformare la chiesa, scrisse e predicò con uno zelo infaticabile. Mentre molti furono persuasi dalle sue idee, la gerarchia romana non le accolse a braccia aperte. Il 15 giugno 1520 Papa Leone X emanò la bolla Exsurge Domine in cui individuò quarantuno tesi “eretiche” che Lutero avrebbe dovuto ritrattare. Quando il teologo di Wittenberg rifiutò e pubblicamente diede fuoco a una copia della bolla, il papa lo scomunicò con la successiva bolla, Decet Romanum Pontificem.

Poco dopo, Lutero presenziò alla dieta imperiale a Worms nella speranza di ottenere un’audizione imparziale. Quando invece l’imperatore Carlo V gli ordinò di abiurare, Lutero replicò con l'ormai celebre frase: “La mia coscienza è prigioniera dalla parola di Dio, ed io non posso ne voglio revocare alcunché”. Circa due mesi dopo, l’8 maggio 1521, Carlo V proclamò l’Editto di Worms che condannò Lutero come fuorilegge e diede permesso a chiunque di ucciderlo con impunità. In soccorso di Lutero, ritrovatosi in pericolo di vita, intervenne Federico il Saggio, elettore di Sassonia, che tutelò il riformatore dalla condanna capitale, nascondendolo nel castello di Wartburg. Durante i dieci mesi passati nell’ombra, Lutero ebbe il tempo necessario per completare la sua opera più importante: la traduzione del Nuovo Testamento in lingua tedesca.

Nel 1522 Lutero tornò a Wittenberg dove proseguì la sua opera riformatrice con, tra i tanti, l’aiuto di Filippo Melantone, Nicolaus von Amsdorf e Katharina von Bora, una suora che poi divenne sua moglie. Scomunicati dalla gerarchia romana, Lutero e gli altri riformatori non poterono fare altro che formare una chiesa separata (malgrado non fosse mai stato un suo desiderio). Un ultimo tentativo di riconciliazione fu la Confessione Augustana, la dichiarazione di fede stesa da Melantone e presentata all’imperatore il 25 giugno 1530, che asserì:

“Questa è pressappoco la sostanza della dottrina che si insegna da noi; è facile notare che in essa non vi è nulla che si discosti dalle Scritture, o dalla Chiesa cattolica o dalla Chiesa romana, per quanto ci è nota dagli scritti dei Padri. Stando così le cose, costoro che pretendono che i nostri siano considerati eretici, giudicano senza alcuna umanità e carità” [Art XXI].

Pur non risolvendo il conflitto con Roma. la Confessione costituì le fondamenta della prima chiesa evangelica, detta anche “protestante”. Non nuova, ma sempre una, santa, cattolica e apostolica, riformata secondo la parola di Dio.

Giovanni Calvino

Giovanni Calvino e la Perfetta Scuola di Cristo

All’infuori di Cristo non c’è nulla che giova conoscere.

Giovanni Calvino
Istituzione, II.xv.2


Nel XVI secolo, la riscoperta del vangelo fece breccia non solo in Germania, ma anche in Svizzera e in Francia, testimonianza che l’opera veniva da Dio. Per esempio, Huldrych Zwingli (1484 – 1531), un contemporaneo di Lutero, avviò la Riforma a Zurigo e, dopo la sua morte, Heinrich Bullinger (1504 – 1575) la portò avanti. La Riforma giunse poi a Basilea e a Strasburgo grazie all’impegno di Giovanni Ecolampadio (1482 – 1531) e Martin Bucer (1491 – 1551).

Il riformatore che, salvo Lutero stesso, lasciò l’impronta indelebile sulla chiesa evangelica fu “quel francese”, il riformatore di Ginevra, Giovanni Calvino (1509 – 1564). Esiliato dal suo paese natale per le sue convinzioni “eretiche”, Calvino arrivò a Ginevra nel 1536, l’anno stesso in cui la città aveva aderito alla Riforma. Sotto la guida di Calvino, la città si trasformò in ciò che il riformatore scozzese John Knox chiamò “la più perfetta scuola di Cristo”: un esemplare della chiesa riformata, un centro di formazione missionaria e pastorale, e un rifugio per tutti coloro che venivano perseguitati per la fede evangelica.

Pur essendo maggiormente noto per il cosiddetto “calvinismo” (sistema teologico non del tutto riconducibile al suo omonimo), la vera importanza di Calvino è tutt’altro. In primo luogo, Calvino basò tutto sulla Parola di Dio, convinto che bisognasse “cercare Dio solo nella sua Parola, di pensare a lui guidati solamente da essa e di affermare di lui solo quanto sia in essa attinto e preso” (I.xiii.21). In secondo luogo, Calvino, a differenza delle speculazioni scolastiche, cercò di attenersi strettamente alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Secondo lui, “la totalità e i singoli elementi della nostra salvezza sono rinchiusi in Gesù Cristo; bisogna perciò guardarsi dal farne derivare la minima porzione da altra fonte. (...) In lui insomma è il tesoro di tutti i beni e da lui dobbiamo attingere per essere saziati, non altrove” (II.xvi.19). Secondo Calvino, dunque, le Scritture vanno interpretate sempre nell’ottica di Cristo, la Parola di Dio di cui tutte le parole della Bibbia danno testimonianza (Giovanni 5:39).

Infine, Calvino insistette che la teologia non è mai un mero esercizio teorico ma che è sempre “utile a (...) educare alla giustizia”. L’obiettivo della sana dottrina è la pietà che Calvino definì “un senso di venerazione e di amore per Dio congiunti insieme, a cui siamo condotti dalla conoscenza dei beni da lui largiti”. E perché è così importante la pietà? Calvino risponde: “Fintantoché gli uomini non hanno chiaramente impresso nel cuore il pensiero che tutto debbono a Dio, che sono teneramente nutriti sotto il suo sguardo paterno, finché; insomma, non lo considerano autore di ogni bene, in modo da non desiderare altro che lui, mai gli si sottometteranno con sincera devozione” (I.ii.1).

È questo che soprattutto Calvino desiderò insegnare alla sua “perfetta scuola di Cristo”. Faremmo bene a imitarlo.

Martin Bucer

Martin Bucer e l'Unità della Chiesa

Se tu immediatamente condanni come ripudiato dallo Spirito di Cristo qualcuno che non crede esattamente come te, e consideri come nemico della verità qualcuno che ritiene vero ciò che è falso, chi, allora, puoi ancora considerare un fratello? Io per primo non ho mai conosciuto due persone che credono esattamente nella stessa maniera. Questo vale anche nella teologia.

Martin Bucer
1530


I riformatori protestanti dovettero subire la scomunica per non compromettere la verità del vangelo, lottando “strenuamente per la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre” (Giuda 3). Tuttavia — a differenza di alcuni settori evangelici odierni — essi non interpretarono l’esortazione di Giuda come un invito al dogmatismo tanto inflessibile da sancire divisioni circa ogni minimo dettaglio dottrinale. I riformatori insistettero sulla necessità di salvaguardare la sana dottrina, ma sempre allo scopo di salvaguardare l'unità ecclesiale.

Un esempio luminoso fu Martin Bucer (1491 – 1551), il teologo tedesco conosciuto per la sua opera riformatrice svolta a Strasburgo. Come molti altri riformatori, Bucer provenne dall’ambiente cattolico-romano. Quando si trasferì a Heidelberg per eseguire i suoi studi, incontrò il pensiero di Martin Lutero e si convertì alla fede evangelica. Bucer si dedicò poi alla predicazione del vangelo in vari luoghi finché nel 1523 non si stabilì a Strasburgo, una città che divenne poi un centro importante di fermenti riformatori.

Tra le sue varie attività, Bucer si adoperò per la conciliazione dei vari movimenti protestanti nascenti. La questione più controversa fu quella della Santa Cena, vertendo soprattutto sulla presenza reale o meno di Gesù Cristo. Secondo Lutero e i suoi seguaci, le parole domenicali riguardo al pane sacramentale, “Questo è il mio corpo”, andavano interpretate letteralmente (ma non nel senso della transustanziazione). Dall’altro canto, Zwingli e tanti protestanti svizzeri rimasero convinti che il pane, come anche il vino, fosse un mero simbolo. Nonostante le sue tendenze zwingliane, Bucer ritenne la questione secondaria rispetto al danno che la divisione da essa provocata aveva causato nel ministero del vangelo.

Bucer provò dunque a trattare un accordo tra le due parti ai colloqui di Marburgo nel 1529 e, nonostante il suo fallimento, mise in risalto il dovere di “comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione” (Efesini 4:1-4).

In conformità a questa scrittura, converrebbe aggiungere ai cinque Sola della Riforma (sola Scrittura, solo Cristo, sola grazia, sola fide, solo a Dio la gloria) un sesto: sola chiesa! Bucer non riuscì a unire le diverse correnti protestanti in una sola chiesa, ma i suoi sforzi ci ricordano della nostra responsabilità di non rassegnarci mai davanti alle fratture che persistono nell'unico corpo di Cristo.

John Knox

John Knox e la Forza della Debolezza

Con tutta umilità ci atteniamo alla purezza dell’evangelo di Cristo che è l’unico pane delle nostre anime, e ci è dunque così prezioso che siamo decisi a subire l’estremità del pericolo terreno anziché la perdita dello stesso. (...) Pertanto, mediante lo Spirito potente del nostro Signore Gesù, ci impegniamo to perseverare fino alla fine nella confessione di questa nostra fede.

tratto dalla prefazione alla
Confessione Scozzese del 1560


Nell’Inghilterra del XVI secolo, il movimento di riforma fu tutt’altro che agevole a causa di vari impedimenti, compromessi e regressioni. Tuttavia, esso trovò un campione nella figura di John Knox, un teologo scozzese che assomigliava più ai profeti veterotestamentari che ai riformatori medievali.

Dopo il martirio del suo maestro, George Wishart, Knox si fece avanti per realizzare la sua visione della Scozia riformata. Per il suo primo incarico Knox servì un gruppo di protestanti come pastore nel castello di St. Andrews. Fu catturato quando le forze francesi arrivarono per difendere la causa cattolica e, successivamente, imprigionato come schiavo in una galea. Liberato dopo diciannove mesi, Knox dovette vivere ancora dieci anni (1549 – 1559) in esilio.

Pur sembrando un grande ostacolo, l’esilio di Knox, (in particolare gli anni trascorsi a Ginevra sotto l’influenza di Giovanni Calvino), risultò essere un periodo di vitale importanza. Trovò il tempo necessario per maturare il suo carattere e per sviluppare un progetto di riforma per la Scozia. Così, quando Knox tornò in patria nel 1559, era preparato per l’opera a cui Dio l’aveva chiamato.

Le dure prove della sua vita l’avevano ridotto a condizioni cagionevoli. Ogni giorno sopportava dolori e debolezze. In più, i suoi sforzi di riformare la Chiesa di Scozia lo misero in conflitto con i governanti cattolici che avevano l’autorità di condannarlo a morte, come era successo a Wishart. Che potrebbe fare un solo uomo debole davanti ai potenti del mondo?

Dal punto di vista umano, considerando le forze alleate contro di lui, c’era poca speranza che Knox sarebbe riuscito a innescare la Riforma in Scozia. Eppure, è proprio ciò che avvenne. La debolezza di Knox fu la sua forza in quanto lo costrinse a dipendere totalmente dalla grazia di Dio. Come l’apostolo Paolo confessò: “Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amore di Cristo; perché quando sono debole, allora sono forte” (2 Corinzi 12:9b-10).

Talmente fu potente la debolezza di Knox che Maria Stuarda, la regina cattolica di Scozia, ammise di temere più le preghiere di Knox che tutti gli eserciti inglesi. Come testimonianza alla grazia di Dio che rende forti i deboli, il Muro della Riforma a Ginevra riporta ancora oggi le seguenti parole di Knox: “Un uomo con Dio è sempre nella maggioranza”.

Konrad Grebel

Gli Anabattisti e la Santità della Chiesa

Il battesimo deve essere dato a tutti coloro che hanno imparato il pentimento e il mutamento di vita e credono veramente che i loro peccati sono stati tolti da Cristo, e a tutti quelli che vogliono camminare nella resurrezione di Gesù Cristo, perché con lui vogliono essere sepolti nella morte per poter con lui risorgere, e a tutti coloro che con questo significato ce lo chiedono, lo desiderano da noi e lo esigono nel loro intimo. Per questo viene escluso ogni battesimo degli infanti, il primo ed il più grande abominio del papa. Di ciò abbiamo fondamento e conferma nella Scrittura e negli apostoli.

Articoli di Schleitheim, 1


Il fatto che la Riforma Protestante sia stata un “movimento di movimenti” è evidente nella cosiddetta “riforma radicale” che differiva da quella “magistrale” di cui Lutero, Calvino e Knox furono protagonisti principali. I riformatori radicali erano uniti dalla convinzione che la riforma della chiesa procedesse troppo lentamente e che le riforme già effettuate non bastassero. A Zurigo, una città già trasformata grazie all’opera di Zwingli, alcuni suoi seguaci, tra cui Konrad Grebel e Felix Manz, si opponevano alla sua collaborazione con le autorità civili. Secondo loro, la chiesa doveva rimanere separata dallo stato per mantenersi pura e profetica. Segno di collusione illecita tra chiesa e stato era il battesimo dei bambini in quanto esso confondeva la confessione cristiana con la cittadinanza secolare.

Per questo motivo, il 21 gennaio 1525, durante una riunione in casa di Felix Manz, Konrad Grebel amministrò a Jörg Cajacob il battesimo in base a una professione di fede consapevole. Nacque così il movimento degli “anabattisti”, ovvero “ri-battezzatori”, da distinguersi dai “battisti” inglesi del secolo successivo. Gli opponenti di questi radicali gli diedero questo nome per disprezzo, ma i radicali stessi preferivano chiamarsi semplicemente “fratelli”, ritornando al linguaggio familiare e affettuoso del Nuovo Testamento. I fratelli anabattisti rinunciarono al clero, cercarono una chiesa pura, cioè composta da soli membri credenti, e posero l’accento sulla necessità di vivere una vita santa e consacrata a Dio.

Purtroppo, le tendenze degli anabattisti, derivate in gran parte dalla loro opposizione sia alla chiesa romana sia alla riforma magistrale, li spinsero a certi estremi malsani, come il frazionismo e il legalismo, nonché a un’insufficiente enfasi sulla giustificazione per la sola fede che costituiva il cuore teologico della Riforma. Tuttavia gli anabattisti giustamente richiamarono l’attenzione su alcuni insegnamenti biblici che erano stati prima trascurati anche dagli altri riformatori, ricordandogli con insistenza che “la religione pura e senza macchia davanti a Dio e Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e conservarsi puri dal mondo” (Giacomo 1:27). Senza ignorare i loro errori, consideriamo gli anabattisti come esempi zelanti dell’esortazione di Ebrei 12:14: “Impegnatevi a cercare la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore”.

Giovanni Diodati

William Tyndale, Giovanni Diodati e la Traduzione della Bibbia in Lingua Volgare

Ho tradotto la Bibbia per aprire agli italiani la porta della scienza celeste.

Giovanni Diodati


Se la Riforma del XVI secolo si avviò grazie alla diffusione della conoscenza delle sacre Scritture, un’arma potente per tentare di rallentarla fu la redazione nel 1559 dell’Indice dei libri proibiti da parte del papa Paolo IV. L’Indice, che rimase in effetto fino al 4 febbraio 1966 quando la Congregazione per la dottrina della fede l’abolì, vietò la stampa e la lettura di versioni della Bibbia in lingua volgare senza l’esplicito permesso della gerarchia romana. Come però dichiarò l’apostolo Paolo, scrivendo dalla prigione: “Io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata” (2 Timoteo 2:9).

Nonostante l’interdetto, dunque, molti si adoperarono per tradurre, stampare, divulgare e far conoscere le Scritture tra i popoli europei nelle varie lingue volgari. Uno dei primi riformatori a sfidare l’opposizione romana all’accessibilità della Bibbia fu l’inglese William Tyndale (c.1494 – ottobre 1536), studioso e linguista che seguì l’esempio di Lutero e si impegnò a tradurre la Bibbia in inglese direttamente dai testi in lingua originale, ossia l’ebraico e il greco. Tyndale dovette eseguire il suo lavoro di nascosto per la forte opposizione della chiesa e del re d’Inghilterra.

Tyndale manifestò il suo zelo in uno scontro con un certo ecclesiastico influente che asserì: “Sarebbe meglio essere senza la legge di Dio che senza quella del papa.” Tyndale, imperturbato, gli ribatté francamente: “Io sfido il papa e tutte le sue leggi. Se Dio mi risparmia la vita, fra non molti anni farò conoscere le Scritture a un ragazzo che guida l’aratro più di quanto non le conosciate voi.” Questo suo zelo gli sarebbe poi costato la vita. Nel 1536, infatti, Tyndale fu legato al rogo, strangolato e poi bruciato, tutto perché “bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (Atti 5:29). Fino all’ultimo, Tyndale non rinunciò al suo impegno, ma morì pregando: “Signore, apri gli occhi del re d’Inghilterra!”

Importante per quanto concerne la storia in Italia fu l’opera di Giovanni Diodati che nel 1607 pubblicò a Ginevra la sua traduzione della Bibbia in lingua italiana. Mentre altri l’avevano già tradotta in italiano, Diodati fu il primo a farlo dai testi originali ebraici e greci. Le altre versioni, come quella che il papa Benedetto XIV avrebbe autorizzato nel 1757, rendevano in italiano la Vulgata latina di Girolamo, ovvero una traduzione di una traduzione.

Di conseguenza, alcune anomalie della traduzione latina (come il “fate penitenza” anziché “ravvedetevi” in Matteo 4:17) rimasero invariate. L’opera di Diodati, invece, diede agli italiani la possibilità di comprendere meglio il senso delle Scritture nella loro forma originale. La Bibbia di Diodati, una delle più rinomate opere in lingua italiana, può considerarsi l’antenato della Nuova Diodati e della Nuova Riveduta, le due versioni contemporanee più usate nelle chiese evangeliche in Italia.

Papa Pio IV

Il Concilio di Trento e la Controriforma

Se qualcuno afferma che l’empio è giustificato dalla sola fede, così da intendere che non si richieda nient’altro con cui cooperare al conseguimento della grazia della giustificazione e che in nessun modo è necessario che egli si prepari e si disponga con un atto della sua volontà; sia anatema.

Concilio di Trento
Sessione VI, canone 9


La Controriforma, a volte chiamata anche riforma cattolica, fu la reazione della gerarchia romana al movimento protestante che aveva messo in discussione molti punti cardinali del sistema ecclesiastico medievale che si basava sul potere papale. Benché vari individui e gruppi fedeli al papa avessero già contestato le istanze protestanti, la risposta definitiva della chiesa di Roma trovò espressione al Concilio di Trento convocato per la prima volta nel 1542 dal papa Paolo III e chiuso nel 1563 sotto Pio IV.

Il lavoro del concilio fu sia polemico sia costruttivo. Da una parte cercò di arginare il propagarsi di idee protestanti, dall’altra tentò di rimediare ai problemi, ritenuti legittimi, individuati dagli stessi. Mentre il concilio di Costanza (1414 – 1418) aveva già previsto la necessità di una riforma, solo la minaccia protestante nel XVI secolo la rese urgente.

Nel rivendicare e rafforzare il primato della chiesa romana, la Controriforma ebbe molto successo, grazie in gran parte ai nuovi ordini religiosi creati allo scopo di ravvivare la pietà popolare, nonché di ampliare la portata dell’autorità ecclesiale tramite opere missionarie. Tale fu il desiderio di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù (ovvero i gesuiti) e autore del libro Esercizi Spirituali, acclamato ancora oggi come campione della fede cattolica contro le incursioni eretiche.

Si ammette che i riformatori protestanti, essendo persone fallibili, commisero sbagli, errori e peccati di vario tipo. Tuttavia, il Dio che sceglie per il suo servizio “vasi di terra affinché questa grande potenza [del vangelo] sia attribuita a Dio e non a noi” (2 Corinzi 4:7) si servì di loro per ripristinare la predicazione della sua parola in Europa. Purtroppo, la gerarchia romana non ne volle sapere nulla, preferendo invece anatemizzare chi predica la giustificazione “dalla sola fede” e contraddicendo così il chiaro insegnamento della Bibbia che “è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi: è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8-9).

Il Concilio di Trento e la Controriforma indurirono dunque la chiesa di Roma nella sua intransigenza contro la vera riforma “secondo l'unica parola di Dio cui dobbiamo credere e ubbidire in vita e in morte” (Confessione di Barmen). Gli anatemi promulgati contro la fede evangelica rimangono in effetto tutt’ora, il che annulla qualsiasi possibilità di riunione delle due confessioni. Eppure, quella stessa parola di Dio che iniziò la Riforma nel XVI secolo potrebbe portarla a compimento nel nostro, e dobbiamo continuare a pregare Dio che così farà.

Thomas Watson

I Puritani e la Vita Coram Deo

Obbedite a tutte le persone nella beata Trinità; perché tutte loro sono Dio. Obbedite a Dio il Padre. Cristo stesso, come uomo, obbedì a Dio Padre, e tanto più dobbiamo noi. Obbedite a Dio il Figlio. (...) I comandamenti di Cristo non sono severi. Tutto ciò che egli comanda, è per il nostro interesse e beneficio. Oh, dunque sottomettetevi al Figlio! (...) Obbedite a Dio lo Spirito Santo. (...) Lo Spirito ha santificato la natura umana di Cristo; egli l’ha unita a quella divina, e ha reso l’uomo Cristo idoneo ad essere nostro Mediatore. Dunque, questa terza persona della Trinità ben merita di essere obbedita, perché egli è Dio, e da parte nostra gli è dovuto questo tributo di onore ed obbedienza.

Thomas Watson
Body of Divinity


Il termine “puritano” ha spesso connotazioni negative, riferendosi a qualcuno di vedute morali strette e inflessibili, pronto a giudicare e condannare gli altri per ogni infrazione della legge. Storicamente però, i puritani erano credenti pienamente devoti a Dio, praticanti di una pietà coerente e calorosa. Le origini del puritanesimo, in quanto movimento, risalgono al XVI secolo, dopo l’inizio della riforma protestante, ma il suo periodo di massima fioritura fu nel secolo successivo quando alcuni evangelici appartenenti alla chiesa d’Inghilterra si accorsero che il fermento riformatore non aveva portato a un rinnovamento del tutto soddisfacente. Nella chiesa rimanevano ancora strutture e usanze non bibliche, e coloro che si adoperarono per purificarla furono chiamati appunto “puritani”.

Per i puritani, tutta la vita in tutti i suoi aspetti — non solo personali ma anche relazionali, comunali, familiari, lavorativi, economici, e così via — risiede coram Deo, ovvero davanti a Dio, e quindi doveva sottoporsi in tutti questi ambiti alla parola di Dio. Come scrisse l’apostolo Paolo in Romani 12:1-2: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.”

I puritani non si accontentavano di mezze misure né di separazioni artificiali tra “religioso” e “secolare”; se siamo “stati sepolti con [Cristo] mediante il battesimo nella sua morte”, allora “come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi [dobbiamo camminare] in novità di vita” (Romani 6:4). Secondo molti, quest’approccio alla fede cristiana sa di fanatismo, ma i puritani, seguendo Paolo, lo ritenevano il minimo che dovevano al Signore, che l’avevano acquistato con il suo sangue.

Non potendo sopportare questi “non-conformisti”, le autorità inglesi perseguitarono i puritani, costringendo molti di loro a rifugiarsi nei Paesi Bassi e nella Nuova Inghilterra, che poi sarebbe diventata gli Stati Uniti d’America. I puritani finalmente ricevettero la libertà di culto quando il parlamento inglese emanò l’Atto di Tolleranza nel 1689.

John Smyth

I Battisti e la Chiesa Confessante

Il battesimo è un’ordinanza neotestamentaria, istituita da Gesù Cristo. Esso costituisce, per la persona battezzata, un segno della propria comunione con Cristo nella sua morte e nella sua resurrezione, del fatto che è stato innestato in Lui, della remissione dei peccati, del fatto che si è abbandonato a Dio per mezzo di Gesù Cristo, per vivere e camminare in novità di vita. Gli unici soggetti legittimati a sottoporsi a questa ordinanza sono coloro che sinceramente professano ravvedimento a Dio, fede nel nostro Signore Gesù Cristo ed obbedienza a lui. L’elemento esteriore da usare in questa ordinanza è l’acqua, nella quale la persona deve essere battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L’immersione nell’acqua è essenziale per la corretta amministrazione di questa ordinanza.

La Confessione di Fede Battista
del 1689, 29.1-4


Il periodo di massima fioritura del puritanesimo in Inghilterra, ossia il XVII secolo, vide nascere all’interno del suddetto movimento il “battismo”, che sarebbe poi diventato una vera e propria denominazione evangelica. Radicate nella corrente riformata del mondo protestante, le chiese battiste si distinguono dall’anabattismo, pur condividendo con quest’ultimo la convinzione riguardante il battesimo dei soli credenti (credobattesimo). La credenza e la pratica del credobattesimo derivano principalmente dalle testimonianze bibliche che associano sempre il battesimo al ravvedimento (ad es. Matteo 3:1-6; Atti 2:38; 1 Pietro 3:21), ma anche dal concetto della chiesa “confessante” i cui membri sono limitati a coloro che confessano consapevolmente Gesù come Signore.

Le origini storiche del battismo risalgono all’inizio del XVII secolo quando un gruppo di puritani inglesi, sotto la guida di John Smyth e Thomas Helwys, scappò dalle persecuzioni religiose in Inghilterra e trovò rifugio nei Paesi Bassi ad Amsterdam. Venendo in contatto con altre comunità protestanti tra cui i mennoniti (eredi delle dottrine anabattiste), i profughi puritani rimasero convinti del credobattesimo e, considerando il loro battesimo da bambini non valido, si fecero battezzare sulla base della loro professione di fede.

Smyth successivamente adottò non solo il credobattesimo ma anche le altre vedute mennonite. Si separò da Helwys, il quale, tornato in Inghilterra credendosi chiamato dal Signore a testimoniare lì nonostante la persecuzione, fondò la prima chiesa battista inglese a Spitalfields, nei dintorni di Londra. Insieme a un nucleo di circa dodici credenti, Helwys stilò la prima confessione di fede battista, precursore dell’importante Confessione di Fede Battista stilata a Londra nel 1689.

Per quanto riguarda l’Italia, il battismo arrivò poi nel 1863 grazie all'opera missionaria di due pastori canadesi, Edward Clarke, che aprì una missione a La Spezia, e James Wall, che si stabilì a Bologna come parte della “Baptist Missionary Society” (la società missionaria battista). Oltre alla sua pratica del credobattesimo, le chiese battiste si contrassegnano per le loro convinzioni circa l'autonomia della chiesa locale, il sacerdozio universale dei credenti, la separazione di chiesa e stato, e la libertà di coscienza del credente individuale.

Francesco Turrettini

Lo Scolasticismo Protestante

Da che cosa possiamo capire che Dio esiste? La luce stessa della natura nell’essere umano, come pure le opere di Dio, manifestano in modo evidente che esiste un Dio. È però la Sua Parola e il Suo Spirito che ce Lo rivelano in modo sufficiente ed efficace ai fini della nostra salvezza.

Il Catechismo Maggiore di Westminster
Domanda 2


Dopo la Riforma del XVI secolo, le chiese protestanti si accorsero della necessità di sviluppare e presentare le loro convinzioni dottrinali in modo sistematico ed esauriente. I riformatori stessi, trovandosi di solito in contesti polemici con ecclesiastici romani, si erano occupati principalmente dei temi teologici più critici per la causa riformatrice, come la giustificazione per la sola fede, l’autorevolezza unica delle sacre Scritture e la concezione della chiesa quale corpo di Cristo e comunione dei santi.

Nonostante le varie confessioni di fede e opere teologiche redatte in quel periodo, mancavano le più ampie riflessioni ed esposizioni di “tutto il consiglio di Dio” (Atti 20:27) al fine di confluire “all’unità della fede e della piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomini fatti, all’altezza della statura perfetta di Cristo” per non essere “più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la frode degli uomini, per l’astuzia loro nelle arti seduttrici dell’errore” (Efesini 4:13-14).

Per sopperire a questa esigenza, nacque lo “scolasticismo [oppure “ortodossia”] protestante”, che fiorì tra il XVII e il XVIII secolo. Tra i protagonisti del periodo si annoverano Teodoro di Beza (successore di Calvino a Ginevra), Francesco Turrettini (docente presso l’Accademia di Ginevra e autore della multivolume Teologia Elenctica), William Ames (autore dell’opera Il midollo della teologia e influente partecipante al Sinodo di Dordrecht, che definì i cosiddetti “cinque punti calvinisti”) e Johannes Cocceius (considerato il padre della “teologia federale” che permane nelle chiese riformate odierne). Da collocare in quest’epoca, è anche la stesura della Confessione di Westminster, massima espressione sintetica dello scolasticismo.

Malgrado i loro obiettivi fossero lodevoli, i teologi scolastici protestanti si arresero sovente alla tentazione a cui i loro predecessori, Lutero e Calvino in primis, avevano tanto resistito: la tentazione di ricorrere ai metodi e alla ragione naturale dei filosofi per edificare i sistemi dottrinali. Come dimostrato nell’affermazione del Catechismo di Westminster sulla possibilità di conoscere veramente Dio, se non pienamente, tramite “la luce stessa della natura nell’essere umano”, gli scolastici caddero nella stessa trappola dei loro interlocutori romani, permettendo alla “sapienza di questo mondo” che è “pazzia davanti a Dio” (1 Corinzi 3:19) di influire sulla loro fede, tanto da essere spesso definiti “cristiani aristotelici”.

Pur recando alle chiese evangeliche qualche beneficio, lo scolasticismo protestante dunque indietreggiò di qualche passo sul percorso indicato dai primi riformatori. Così facendo, si allontanò da una fede cristiana determinata unicamente dalla parola di Dio. Mentre gli scolastici più fedeli sarebbero inorriditi alle congetture sempre più filosofiche e mistiche dei teologi liberali del IX secolo, sarebbe oggi difficile discolparli del tutto dall’aver dirottato la teologia protestante.

Jonathan Edwards

Il Risveglio Spirituale

Oggi è il giorno in cui Cristo si mette in piedi chiamando ad alta voce i poveri peccatori. Questo è il giorno in cui molti si stanno avvicinando a Lui, affrettandosi per arrivare al regno di Dio. (...) Voi avete bisogno di riflettere e di destarvi dal vostro sonno, perché mai potrete sopportare la furia e l’ira dell’Iddio infinito.

Jonathan Edwards


La Riforma del XVI secolo ripristinò il vangelo in Occidente, ma nel tentativo (del tutto valido e necessario) di difenderlo e sistematizzarne la teologia, molte delle denominazioni protestanti dei secoli successivi si arresero alla tentazione di abbandonare “il primo amore”. Come la chiesa di Efeso nel I secolo, l’impegno di conservare la verità del vangelo contro l’errore e l’eresia eclissò l’ardore del cuore per la persona del vangelo, Gesù Cristo. Parlando alla suddetta chiesa in Apocalisse 2:2-5, Gesù disse:

“Io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza; so che non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono, e che li hai trovati bugiardi. So che hai costanza, hai sopportato molte cose per amore del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi.”

Alla chiesa di Efeso serviva non tanto una riforma di dottrina quanto un risveglio del cuore. Similmente, nel XVIII secolo, alcuni evangelici si adoperarono per ravvivare la fervenza spirituale tra gli eredi della Riforma, consacrandosi “all’amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1 Timoteo 1:5).

La chiesa d’Inghilterra visse un risveglio nella forma del “metodismo” sotto la guida di John Wesley (1703 – 1791) e suo fratello, Charles (1707 – 1778). Pur diventando anni dopo una denominazione vera e propria, il metodismo iniziò come movimento rinnovatore, mirando a promuovere la spiritualità evangelica tramite la pratica quotidiana e “metodica” dello studio biblico, la preghiera e il servizio di beneficenza. Poco prima di Wesley, il “pietismo” sorse all’interno della chiesa luterana in Germania grazie alla visione di Philipp Jacob Spener (1635 – 1705) che contestò la fredda formalità della chiesa statale organizzando gruppi di laici devoti all’ubbidienza alle Scritture. Nelle colonie americane, i ministeri del pastore e teologo Jonathan Edwards (1703 – 1758) e dell’evangelista George Whitefield (1714 – 1770) contribuirono al grande risveglio che riaccese il fuoco evangelico nel nuovo mondo.

Mentre tutti questi movimenti manifestarono varie problematiche, furono tutti l'opera dello Spirito Santo che diede nuova vita al corpo di Cristo. Il risveglio spirituale, necessario per rivitalizzare la chiesa stagnante, non avviene mai mediante gli sforzi umani ma attraverso la sola grazia di Dio. Tuttavia, la storia ci mostra come Dio si serve di uomini e donne di grande fede e di preghiera incessante per farlo scoppiare. Che Dio si serva anche di noi per innescare il risveglio nella nostra generazione!

Friedrich Schleiermacher

Friedrich Schleiermacher e la Teologia Liberale

L'essenza della vera pietà è questa: avere coscienza di dipendere assolutamente da Dio. (...) Le dottrine cristiane sono racconti delle emozioni religiose cristiane tradotte in parole.

Friedrich Schleiermacher


Con il declino dello scolasticismo protestante dovuto in parte all’ascesa dell’illuminismo nell’Europa del XVII e XVIII secolo, una nuova corrente teologica comparve grazie maggiormente a Friedrich Schleiermacher (1768 – 1834), un teologo tedesco che si lasciò influenzare dalla filosofia dell'idealismo, rappresentato da G.F. Hegel. Siccome l’illuminismo innalzò la ragione umana come mezzo supremo per arrivare alla verità, accusò la fede cristiana di essere solo superstizione, mito e fantasia. Alcuni teologi protestanti come Schleiermacher cercarono di difendere la fede isolandola nella sfera della soggettività personale. Se la fede non costituisce la “certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11:1) ma esprime solo, come sostenne Schleiermacher, le “emozioni religiose” del credente, essa diventa invulnerabile agli attacchi dei suoi critici.

Nella sua opera più celebre, La Dottrina della Fede, Schleiermacher produsse uno dei più radicali e influenti ripensamenti della teologia cristiana in tutta la storia della chiesa. Premettendo che la fede non è altro che “il sentimento di dipendenza” della creatura dal Creatore, Schleiermacher rielaborò l’intero sistema di dottrina tramandatogli dai suoi predecessori protestanti. Il risultato fu tutta un’altra cosa rispetto all’insegnamento degli apostoli nel Nuovo Testamento. Essi predicarono un messaggio del tutto obbiettivo: “Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture” (1 Corinzi 15:3-4).

La verità del vangelo rimane sempre vero a prescindere da come viene appropriato da chi l’ascolta. Tanto è obiettivo il vangelo quando leggiamo che “se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede; (...) voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Corinzi 15:14, 17). Se invece, come insistette Schleiermacher, la frase “Cristo è stato risuscitato il terzo giorno” traduce in parole i sentimenti religiosi dell’individuo, essa non rivendica di essere la verità universale ma solo un’emozione personale.

Fu lodevole il desiderio di Schleiermacher di trovare un modo convincente per comunicare la fede cristiana nel suo contesto storico, ma nel processo sviscerò il vangelo tanto da svuotarlo del suo potere salvifico. Meglio è l’esempio dell’apostolo Paolo sull’Aeròpago ad Atene:

“Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: ‘Al dio sconosciuto’. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. (...) Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti risuscitandolo dai morti” (Atti 17:22-23, 30-31).

William Carey

William Carey e la Nascita delle Missioni Moderne

La conversione di una sola anima è degna del lavoro di una vita intera. Ci è stata data questa grazia di annunciare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo. Resisti, dunque; rimani costante nel tuo impegno e affida a Dio il risultato.

William Carey


All’epoca della nascita di William Carey (1761 – 1834) in Inghilterra, la chiesa evangelica in molti luoghi aveva perso di vista la missione di evangelizzare e fondare chiese tra “tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue” (Apocalisse 7:9). Vari ne furono i motivi, ma uno si rileva nell’aneddoto raccontato circa l’esperienza del giovane Carey a una riunione di pastori. Quando Carey si alzò per proporre come argomento di discussione “il dovere dei credenti di spandere il vangelo nelle nazioni pagane”, il moderatore della riunione replicò: “Giovane uomo, siediti. Quando Dio vorrà convertire i pagani lo farà senza il mio ed il tuo aiuto!”.

Nonostante l’opposizione di molti credenti, Carey restò convinto che il grande mandato (Matteo 28:19-20) fosse valido fino al ritorno di Cristo che ordinò: “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate.”

Finché tutti i popoli del mondo non si battezzeranno e impareranno a osservare tutti quanti i comandamenti di Gesù, la sua chiesa ha l’obbligo di andare ovunque essi si trovino per farne suoi discepoli. William Carey, dunque, pur lavorando come semplice calzolaio, continuò a promuovere instancabilmente l’opera missionaria in tutto il mondo. Il motto che Carey predicò dappertutto fu: “Aspèttati grandi cose da Dio; tenta grandi cose per Dio!”.

Gli sforzi di Carey finalmente portarono alla creazione della Società Missionaria Battista nel 1792. Lui stesso salpò per l’India insieme alla sua famiglia nel 1793. Successivamente altri missionari l’avrebbero seguito, ispirati dal suo esempio e indirizzati dalla stessa società missionaria. In India, Carey riuscì a tradurre la Bibbia nelle varie lingue indigene, evangelizzò centinaia di persone, fondò scuole primarie e l’Università di Serampore e alleviò disagi dovuti alla povertà diffusa e alle caste sociali.

Tutto ciò non fu però senza costo. Oltre alle tipiche difficoltà relative a vivere in un paese straniero, Carey subì gravi lutti personali. Undici mesi dopo essere arrivati in India, Peter, suo figlio di cinque anni, morì. La moglie di Carey, Dorothy, fu colpita da un crollo mentale e soffrì di esaurimento nervoso fino alla sua morte nel 1807. L'anno seguente Carey si risposò, ma anche la seconda moglie morì tredici anni dopo nel 1821, seguita poco dopo da Felix, il primogenito. La vita di William Carey, ricordato come “il padre delle missioni moderne”, esemplifica le parole di Gesù in Giovanni 12:24: “In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto.”

Williamo Wilberforce

William Wilberforce e l'Amore per il Prossimo

Puoi scegliere di guardare dall’altra parte, ma non puoi dire che non lo sapevi.

William Wilberforce


A volte, le chiese evangeliche che, giustamente, privilegiano la predicazione del vangelo al fine di formare discepoli di tutti i popoli (Matteo 28:19-20) escludono l’opera per il “prossimo”, che dovrebbero amare come loro stesse. A dire il vero, non è sempre facile sapere come meglio impiegare il tempo e le risorse limitate che Dio ci ha affidato. È questa una questione affrontata sin dai primi giorni della chiesa:

“In quei giorni, moltiplicandosi il numero dei discepoli, sorse un mormorio da parte degli Ellenisti contro gli Ebrei, perché le loro vedove erano trascurate nell’assistenza quotidiana. I dodici, convocata la moltitudine dei discepoli, dissero: ‘Non è conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense. Pertanto, fratelli, cercate di trovare fra di voi sette uomini, dei quali si abbia buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Quanto a noi, continueremo a dedicarci alla preghiera e al ministero della Parola’” (Atti 6:1-4).

Mentre “la preghiera” e “il ministero della Parola” hanno il primato nella chiesa, è anche necessario non trascurare “l’assistenza quotidiana”. La vita di William Wilberforce (1759 – 1833) ce ne fornisce un illustre esempio. Nell’epoca in cui l’impero britannico permetteva e dipendeva economicamente dalla tratta degli schiavi, Wilberforce dedicò la sua vita ad abolirla.

Nato in una famiglia nominalmente anglicana, Wilberforce crebbe senza una fede autentica e personale finché non iniziò a leggere la Bibbia per conto suo, comprese il vangelo e si convertì. Finiti gli studi universitari, nel 1780 si candidò e fu eletto alla Camera dei Comuni del parlamento britannico. Spinto dalle sue convinzioni evangeliche e mosso da compassione per le ingiustizie e sofferenze causate dalla schiavitù, Wilberforce presentò una mozione per abolirla. La sua lotta si prolungò per due decenni, anni in cui affrontò un’accanita opposizione e minacce.

Tuttavia, nel 1807 con tenacia e fiducia in Dio, Wilberforce vinse la battaglia: la Camera votò l’abolizione della tratta degli schiavi. Nonostante questa grande vittoria, la schiavitù seguitò fino al 1833, data in cui Wilberforce riuscì a far approvare un’ultima petizione: l’abolizione definitiva della schiavitù in tutto l’impero britannico. Tre giorni dopo, il 29 luglio, Wilberforce morì, letteralmente sfiancato dalle sue lotte a favore degli schiavi.

La vita di Wilberforce serve come l’esempio di un uomo che seguì Cristo nell’amare il prossimo più di sé stesso, esternando l’amore di tutti coloro che sono morti con Cristo e ora vivono in lui e lui in loro. Wilberforce, inoltre, ci illustra l’importanza di prendersi cura dell’essere umano nella sua totalità: anima e corpo, santità e sanità, cuore e casa. Come Gesù disse circa l’amore dimostrato dal buon Samaritano: “Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa” (Luca 10:37).

Johann Christoph Blumhardt

Johann Christoph Blumhardt e il Combattimento Spirituale

L’intervento del Dio vivente è più forte oggi di quanto molti credono. Dio vuole manifestarsi come colui che è qualcosa e che fa qualcosa adesso. Parlando del Regno di Dio, proclamiamo che Gesù Cristo non è morto. Egli non è semplicemente qualcuno che è apparso duemila anni fa, un personaggio del passato di cui conserviamo alcuni ricordi e insegnamenti. No, proprio come Gesù ha vissuto duemila anni fa, vive ancora oggi. Egli vuole trionfare in mezzo a noi per l’onore di Dio.

Christoph Friedrich Blumhardt


Oggi come oggi molti sono contenti di essere “religiosi” o “spirituali” se ciò non li disturba o complica le loro vite. Per loro, Dio è più un’idea che il Signore vivente, e il regno di Dio è più un concetto pio che una forza operativa. La vita e il ministero di Johann Christoph Blumhardt (1805 – 1880) però rendono insostenibile questa mentalità. Blumhardt era il pastore tedesco di una piccola parrocchia luterana a Möttlingen, situata nello stato di Baden-Württemberg. Nel 1841, una ragazza, Gottliebin Dittus, si rivolse a lui, in preda a tormenti inspiegabili e apparentemente incurabili. Mentre quelle afflizioni avevano lasciato perplessi i medici, a Blumhardt bastò poco tempo per capire che erano dovute a un’oppressione diabolica.

Così iniziò la battaglia di Blumhardt per l’anima e il corpo di Gottliebin, non “contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti” (Efesini 6:12). Per questo motivo, le armi del suo combattimento erano “la verità per cintura”, “la corazza della giustizia”, “come calzature (...) lo zelo dato dal vangelo della pace”, “lo scudo della fede”, “l’elmo della salvezza” e “la spada dello Spirito, che è la parola di Dio” (Efesini 6:14-17). Soprattutto, Blumhardt si accorse della necessità di pregare “in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica (...) con ogni perseveranza” (Efesini 6:18).

La lotta di Blumhardt durò due anni, finché non si udì il grido dell’ultimo demonio rimasto: “Gesù è vincitore!”. Da quel momento in poi, la vittoria di Gesù e del suo regno sul maligno si manifestarono sempre più di frequente a Möttlingen e nei dintorni: peccati confessati, tanti convertiti, malattie guarite, rapporti risanati, fervore spirituale ravvivato, e molto altro ancora. Blumhardt ribadì più volte che tali benedizioni discendessero solo dalla mano potente di Dio, e che avessero lo scopo di dare un assaggio del suo regno avvenire.

Non siamo mai noi a dare sfoggio della potenza e la vittoria del regno di Dio, Gesù ci ha arruolati per svolgere un compito indispensabile: pregare incessantemente: “Venga il tuo regno!”. Potremmo non rendercene conto, ma siamo costantemente coinvolti nello stesso combattimento in cui si destreggiò Blumhardt, e come lui dobbiamo sempre mettere in pratica questo comandamento: “prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere” (Efesini 6:13).

Karl Barth

Karl Barth e l'Unica Parola di Dio

Gesù Cristo è lui stesso questa elezione gratuita di Dio e di conseguenza, la Parola e la decisione divine, l’origine e l’inizio inglobanti in maniera assolutamente esaustiva tutte le altre parole, decisioni, inizi particolari.

Karl Barth
La Dottrina dell’Elezione Divina
pagine 305-306


Nato a Basilea nel 1886, il teologo svizzero Karl Barth rivoluzionò il mondo del XX secolo. Dopo essersi imbevuto della teologia del protestantesimo liberale, Barth la rinnegò quando, come pastore a Safenwil in Svizzera, scoprì che essa non era in grado di rispondere alle problematiche dei fedeli. Avevano bisogno di udire la parola del Dio vero e vivente, non la voce proveniente dai propri cuori.

Quest’epifania portò Barth a mettere l’accento sull’assoluta obiettività della parola di Dio, che fa irruzione nella storia e stravolge ogni pensiero, progetto e sistema umano. In particolare, Barth insistette (come avrebbe poi scritto nella Dichiarazione di Barmen) che “Gesù Cristo, cosi come ci viene attestato nella Sacra Scrittura, è l’unica parola di Dio. Ad essa dobbiamo prestare ascolto; in essa dobbiamo confidare e ad essa dobbiamo obbedire in vita e in morte”.

Durante la sua lunga carriera come professore di teologia presso le università di Münster (1925 – 1930), Bonn (1930 – 1935), e Basilea (1935 – 1962), e poi fino alla sua morte, avvenuta nel 1968, Barth lavorò instancabilmente per applicare questa convinzione a ogni aspetto del pensiero e della vita cristiana. Frutto di circa trent’anni di fatica fu la monumentale ma incompiuta Dogmatica Ecclesiale, un’opera di oltre ottomila pagine suddivise in tredici volumi. Qui Barth espose una visione della fede cristiana incessantemente concentrata sulla persona e sull’opera di Gesù Cristo. Tra i suoi contributi inestimabili si ricordano in particolare i seguenti:

  • La dottrina della predestinazione: Barth ridimensionò la dottrina, da sempre intensamente dibattuta, della predestinazione in chiave cristologica: Gesù Cristo è sia il Dio che elegge sia l’uomo eletto. Siamo eletti solo perché siamo tali in Cristo che è l’unico vero Eletto di Dio, così come siamo figli di Dio solo perché siamo adottati in Gesù l’unico vero Figlio di Dio (Efesini 1:4-5). In questo modo, la dottrina della predestinazione non diventa il “Sì” di Dio ad alcuni e il suo “No” agli altri, ma solo il suo “Sì” a tutti (2 Corinzi 1:18-20). L’elezione è in realtà una persona: Gesù Cristo.
  • La dottrina della rivelazione: Basandosi sulla verità che Gesù è l’unica via, verità e vita (Giovanni 14:6), Barth negò la possibilità di conoscere Dio, se non solo come si rivela in Cristo. L’essere umano non può conoscere Dio tramite le sue capacità ma solo in quanto Dio si fa conoscere per mezzo di Gesù (Giovanni 1:18).
  • La dottrina delle sacre Scritture: L’enfasi di Barth su Cristo quale unica Parola di Dio influenzò la dottrina delle sacre Scritture. Se Cristo è l’unica vera Parola di Dio, le Scritture lo sono solo in senso secondario, in quanto esse rendono testimonianza di lui (Giovanni 5:39). Lungi però dal diminuire l'importanza della Bibbia, Barth l’aumentò, considerandola così non un libro qualsiasi la cui efficacia dipende dalla sua interpretazione, ma come lo strumento per mezzo del quale Gesù Cristo ci incontra e parla personalmente.

Dietrich Bonhoeffer

Dietrich Bonhoeffer e la Chiesa in Rivolta

La croce viene imposta ad ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. È la morte del vecchio Adamo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Cristo si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall’inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all’inizio della comunione con Gesù Cristo. Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte.

Dietrich Bonhoeffer
Sequela


La vita di Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945) resta fino ad oggi un esempio di come il cristiano dovrebbe sentirsi sempre in rivolta contro il mondo che “giace sotto il potere del maligno” (1 Giovanni 5:19). Nella Germania del XX secolo, quando la chiesa ufficiale dello stato stava dalla parte del partito nazista, la chiesa “confessante” evangelica — in cui Bonhoeffer, insieme a Karl Barth, svolse un ruolo determinante — si oppose apertamente al regime e fu per questo violentemente perseguitata. Ma come Bonhoeffer dichiarò in una delle sue ultime lettere scritte dal carcere dove rimase imprigionato per opposizione ai nazisti: “La chiesa deve uscire dalla sua stagnazione. Dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo. Dobbiamo rischiare di dire anche delle cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale.”

Giovane teologo promettente, Bonhoeffer si distinse subito per il suo acume, tanto che fu invitato nel 1929 a insegnare presso l’Union Theological Seminary di New York mentre la situazione in Germania risultava sempre più critica. Pur godendo di prestigio e sicurezza, Bonhoeffer decise di tornare in Germania solo due anni dopo, convinto di essere chiamato a servire lì nonostante i rischi.

In patria Bonhoeffer partecipò attivamente alla resistenza contro il nazismo in base alle pretese esclusive di Gesù Cristo. Benché redatta da Karl Barth, la Dichiarazione di Barmen espresse quelle “false dottrine”, rifiutate da Bonhoeffer, su cui si fondava l’accordo tra i nazisti e la chiesa statale: “Respingiamo la falsa dottrina, secondo cui ci sarebbero settori della nostra esistenza nei quali non apparterremmo a Gesù Cristo ma ad altri signori; settori, in cui non ci sarebbero necessarie la sua giustificazione e la sua santificazione.”

La rivolta di Bonhoeffer prese la forma di predicazione, scritti teologici ed etici, e la formazione di pastori nel seminario illegale e clandestino di Finkenwalde. Dopo essere stato arrestato e processato, Bonhoeffer fu trasferito nel campo di concentramento di Buchenwald, e poi a quello di Flossenbürg, dove fu impiccato il 9 aprile 1945, solo pochi giorni prima della fine della guerra. La vita di Bonhoeffer ci ricorda che, nonostante i tempi nei quali si vive, è sempre vero che “l’amicizia del mondo è inimicizia verso Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio” (Giacomo 4:4). Come Bonhoeffer era solito ribadire, il cristiano, dunque, deve sempre seguire Gesù rinunciando a sé stesso e prendendo la sua croce (Marco 8:34).

Papa Pio XI

Vaticano II e la Cattolicità della Chiesa

[Sembra che] da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. (...) Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezzaì.

Paolo VI
Omelia del 29 giugno 1972


Secondo molti, il cattolicesimo si trasformò dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), non per nulla chiamato “ecumenico”. Non a caso, il decreto Unitatis Redintegratio inizia osservando che “Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico Vaticano II”. Lo stesso decreto continua riconoscendo che “Tra gli elementi o beni dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica” (3).

Quest’apertura sembra stare in forte contrasto con il cattolicesimo preconciliare, esemplificato dalla costituzione Munificentissimus Deus, promulgata nel 1950, solo pochi anni prima del Vaticano II. Avvalendosi dell’infallibilità papale (proclamata nella costituzione Pastor Aeternus del 1870), Pio XII definì il dogma dell’assunzione di Maria: (...) per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo.

A questo, il papa aggiunse: “A nessuno dunque sia lecito infrangere questa Nostra dichiarazione, proclamazione e definizione, o ad essa opporsi e contravvenire. Se alcuno invece ardisse di tentarlo, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo.”

La condanna di tutti coloro che negano questo dogma pare incoerente con lo spirito ecumenico del cattolicesimo postconciliare. Molti, compresi alcuni evangelici, credono infatti che quest'ultimo costituisca una rottura talmente radicale che sia arrivato il momento per far riavvicinare i cattolici e i protestanti in una sola chiesa.

Tuttavia, un importante documento intitolato Orientamenti evangelici per pensare il cattolicesimo, pubblicato dall’IFED di Padova, avverte che tutto non è come appare:

“Nell’attuale panorama religioso, il cattolicesimo romano dimostra di possedere un proprio disegno d’insieme in vista del perseguimento della cattolicità. Tutto ciò è particolarmente osservabile nella strategia ecumenica attuata dal Vaticano II in poi. In quest’ottica, ogni movimento di apertura nei confronti degli evangelici non può che essere messo in relazione al progetto della cattolicità. Di fronte a questi apparenti segni di disponibilità al cambiamento, ci si deve interrogare se essi non siano invece finalizzati ad allargare la sintesi cattolica e ad inglobare le istanze dell’evangelicalismo in un orizzonte più propriamente cattolico” (5).

È vero che Gesù pregò per l’unità di tutti i credenti, ma non ad esclusione della verità che li santifica (Giovanni 17:17-21). Finché il cattolicesimo invoca Maria come “Mediatrice” (Lumen Gentium, 60), gli evangelici che ritengono Gesù Cristo il “solo mediatore fra Dio e gli uomini” (1 Timoteo 2:5), non possono chiudere il capitolo aperto dalla riforma protestante.

John Stott e Billy Graham

Il Patto Losanna

In qualità di membri della Chiesa di Cristo provenienti da più di 150 nazioni, partecipanti al Congresso Internazionale sull’Evangelizzazione del mondo che si è svolto qui a Losanna, lodiamo Dio per la sua grande salvezza e ci rallegriamo della comunione che egli ci ha donato con sé e gli uni con gli altri. (...) Noi sosteniamo che il Vangelo è la Buona Notizia per l’intero mondo e siamo determinati, in ragione della sua grazia, a ubbidire al mandato di Cristo che ci ordina di proclamarlo a tutta l’umanità, facendo discepoli in ogni nazione.

Il Patto di Losanna
Introduzione


A differenza del Concilio Vaticano II che ambì all’ecumenismo ma venne meno a causa delle sue peculiarità romane (ad es. la confusione di Maria con Cristo in qualità di unico mediatore), il primo Congresso Internazionale sull’Evangelizzazione del Mondo, tenuto a Losanna presso il Palais de Beaulieu, rivendicò che il potere e la possibilità di riconciliare tutte le nazioni, lingue e tribù della terra sotto un solo capo non derivino da edifici terrestri e figure umane (come la chiesa romana e il papa), ma dal vangelo di Gesù Cristo che di tutti i popoli, sia ebrei sia gentili “ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione, abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la croce, sulla quale fece morire l’inimicizia” (Efesini 2:14, 16).

Il congresso, organizzato e gestito da leader evangelici come l’evangelista Billy Graham e il teologo inglese John Stott, radunò circa 2700 rappresentanti di varie confessioni cristiane, provenienti da più di 150 nazioni, uniti dalla sola fede in Cristo Gesù quale unico Salvatore e Signore del mondo. Il Patto di Losanna, redatto durante i giorni del congresso (dal 16 al 25 luglio 1974), dichiara senza equivoci che “Non c’è altro nome [all’infuori di Gesù] per mezzo del quale veniamo salvati” (3).

Il Patto sostiene, inoltre, che è proprio l’unicità di Cristo che conferisce al vangelo la sua portata universale. Poiché “l’uomo non è giustificato per le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 2:16), non bisogna aggiungere nulla in più come criterio di unità, come sottomissione alla gerarchia romana. “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:28).

Così, il Patto di Losanna, un documento veramente ecumenico, in quanto incentrato esclusivamente su Gesù Cristo, conclude con questo invito, a cui vogliamo anche noi partecipare: “Per concludere, alla luce di ciò che crediamo e che abbiamo cercato di presentare e alla luce del nostro impegno, stipuliamo un solenne Patto con Dio e tra di noi per pregare, pianificare e agire insieme per l’evangelizzazione dell’intero pianeta. Invitiamo tutti a unirsi a noi. Possa Dio aiutarci con la sua grazia e per la sua gloria a essere fedeli a questo impegno! Amen. Alleluia.”

Ignoto Militi

Di Loro il Mondo Non Era Degno

Nel ripercorrere la storia della chiesa, bisogna resistere alla doppia tentazione di, da una parte, idealizzare i pochi protagonisti i cui nomi si ricordano e, dall’altra, di sminuire l'importanza della maggioranza di credenti che rimangono sconosciuti. Non bisogna giudicare il valore del servizio dell’uno o dell’altro nel regno di Dio in base ai criteri stabiliti dal mondo. Nella Bibbia e nella storia della chiesa, Dio ci ha dato alcuni esempi — come Abraamo, Mosè, Paolo, Atanasio e Karl Barth — affinché noi, “circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta” (Ebrei 12:1).

Ma ciò non vuol dire che questi fossero più significativi o preziosi agli occhi di Dio, un elogio va anche a tutti gli sconosciuti della storia di cui “il mondo non era degno”:

“Che dirò di più? Poiché il tempo mi mancherebbe per raccontare di Gedeone, Barac, Sansone, Iefte, Davide, Samuele e dei profeti, i quali per fede conquistarono regni, praticarono la giustizia, ottennero l’adempimento di promesse, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, guarirono da infermità, divennero forti in guerra, misero in fuga eserciti stranieri. Ci furono donne che riebbero per risurrezione i loro morti; altri furono torturati perché non accettarono la loro liberazione, per ottenere una risurrezione migliore; altri furono messi alla prova con scherni, frustate, anche catene e prigionia. Furono lapidati, segati, uccisi di spada; andarono attorno coperti di pelli di pecora e di capra; bisognosi, afflitti, maltrattati (di loro il mondo non era degno), erranti per deserti, monti, spelonche e per le grotte della terra” (Ebrei 11:32-38).

Notevole è la menzione specifica anche di “donne”, le quali sono spesso trascurate. Non passa inosservato il fatto che la preponderanza dei protagonisti ricordati nella storia della chiesa siano uomini. Ciò non è dovuto tanto alla mancanza di donne straordinarie di cui Dio si servì — e di cui si serve ancora — per compiere la sua volontà quanto alla superbia degli uomini che le soppressero o ignorarono.

Ripassando la storia della chiesa, dunque, è necessario rammentare che il regno di Dio rovescia i valori del mondo: “Ma Gesù, chiamatili a sé, disse loro: ‘Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi esercitano autorità su di esse. Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti’”. (Marco 10:42-45).

Il mondo dimenticherà i nostri nomi, ma a chi rimane fedele a Gesù, egli promette: “io confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli” (Apocalisse 3:5).

La gara che ci è proposta

Finché Egli Venga

La conclusione della storia della chiesa rimane ancora incompiuta. Partendo dalla Pentecoste, essa andrà sempre avanti fino al giorno dell’apparizione di Gesù Cristo nella sua gloria. Duemila anni sono passati d’allora, e di questa storia (L'Atto IV) abbiamo visto solo qualche spaccato. Analoga al paradosso che in Cristo siamo simultaneamente peccatori e santi, la storia della chiesa è piena di alti e bassi, di fede e di infedeltà, di verità ed eresia, di coraggio e di codardia. E ciò continuerà a essere “finché egli venga” (1 Corinzi 11:26). Lungi dall’impedire il compimento del proposito di Dio, la nostra debolezza non fa altro che porre in rilievo il potere di Dio: “noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi” (2 Corinzi 4:7).

Questo percorso attraverso due millenni di storia mira a farci conoscere quella “grande schiera di testimoni” che ci circonda, che ora tifa per noi mentre “corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta” (Ebrei 12:1-2). Infatti, tocca adesso a noi portare avanti la missione del vangelo in mezzo alla nostra “generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita” (Filippesi 2:15-16).

Questa è la nostra storia, e ne siamo i protagonisti. Probabilmente nessuno scriverà la nostra biografia o ci menzionerà nei libri di storia. Faremo parte di quella moltitudine, “proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue” (Apocalisse 7:9), i cui nomi verranno dimenticati dal mondo ma resteranno sempre “scritti nel libro della vita dell’Agnello” (Apocalisse 21:27). Gesù non ci chiede di diventare famosi ma di rimanere fedeli, rinunciando “all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù” (Tito 2:12-13).

La gara che ci è proposta sarà ardua e dolorosa, ma mentre corriamo con perseveranza, il Signore ci dona una benedizione di inestimabile valore: essere membri del suo corpo, ossia la sua chiesa che sta edificando e contro la quale le porte dell’Ades non vinceranno mai (Matteo 16:18). Insieme a questa comunità di fratelli e sorelle, troviamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vincere, ricordandoci dell’insegnamento del Signore Gesù che “nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me’. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. (1 Corinzi 11:23-26).

Amen! Vieni, Signore Gesù!

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